Illustrazione di Greta Vaccari

Davanti all’assassinio delle mie costruzioni.

di Andrea Annibaletti

Ahia! 

Ero riuscito a tagliarmi con la carta. Ed era pure velina. 

Lega qua, metti là. Ci credo. Era un casino. Che casino, quanti fogli cazzo. Ma è così. Il lavoro non aspetta. 

Una decorazione di fogli scritti fitti su una scrivania della quale non ricordavo il colore, il legno, l’altezza…forse era alta venti centimetri e il resto erano fogli ammassati uno sull’altro. Non ricordavo. 

Fatto sta che mi sono girato verso il tavolo dove posavo le raccolte finite. Era vuoto. 

Caspita…vuoto. Ma come. Avevo appena iniziato? Non mi pareva.

Almeno…

Mi sembrava di aver rilegato almeno una raccolta. A quanto pare no.

Guardai fuori dalla finestra di fronte a me. Immersi per un attimo gli occhi nella profondità dei campi verdi. Sotto il grigio di nuvole indecise. Di nuvole inutili. Che non permettevano al sole di scaldarli e che non dissetavano le piante col loro piscio. 

Ho sempre pensato, però, che quel verde preludio del granturco stesse alla perfezione con quel cielo infelice. Allora riabbassai gli occhi verso le scritte nere sulle pagine sparse qua e là. 

Ma cosa cavolo c’era scritto su quei fogli?

Provavo a leggerli e riuscivo a comprendere solo le frasi da sole. Non capivo come queste si collegassero fra loro. Più mi sforzavo e più perdevo il significato anche delle frasi, e allora comprendevo solo le parole. E via così fino a sentire solo i suoni dei grafemi. 

La stanza era silenziosa. Mi piaceva quel silenzio. Quando smettevo brevemente di torturarmi le mani raccogliendo e rilegando i fogli, riuscivo a sentire le parole degli oggetti, dei muri, dei mobili antichi. Sentivo le loro parole infiltrarsi come sabbia nei miei timpani. 

E poi richinavo il capo. Così continuamente. Alzavo brevemente e richinavo come un mulo. E nonostante quel moto incessante, quel lavorio costante, non avevo prodotto un bel niente. 

D’un tratto sentì delle voci provenire da fuori. Voci. Risa sfrenate. Urla. Di donne. di uomini. Sentivo anche carrozze e cavalli scricchiolare i piedi sulla ghiaia polverosa. 

Sentivo, insomma, un qualcosa di vivo fuori dal mio campo visivo. 

E fu allora che udì dei passi provenire dall’uscio di casa, aperto alla corte. 

Alcuni passi, non molti. Tranquilli. Passi lenti uno dopo l’altro superare il capostipite della porta e ipoteticamente iniziare il corridoio che portava al mio studio. 

Per verificare l’ipotesi mi sporsi, senza paura, per vedere chi fosse. 

Una sagoma piccola, ritagliata su uno sfondo di luce, la luce della corte che irrompeva dalla porta di ingresso. Una sagoma nera, in controluce. E fece altri due passi, ingrandendosi di qualche centimetro. Passo-passo. 

“Cosa c’è? Hai bisogno?”

“…”

“Ehi cosa c’è piccolo? Cerchi qualcuno?”

Silenzio. Anzi…rumore della corte. Cinguettio e leggero vociare al sole. Fino a:

“Seguimi”

Una voce bambina, di un bimbo. 

“Seguimi” ripeté a distanza di cinque secondi. 

“Cosa? Dove…dove ti devo seguire?”

“Seguimi”

“Sì ma dimmi…senti piccolo sono molto indaffarato scusami…sono molto impegnato. Sto lavorando con molte carte, è una cosa lunga. Non posso seguirti, mi dispiace.”

Vidi che il bimbetto allora si voltò e uscì dalla porta di luce, inghiottito. 

Ripresi il mio lavoro, e per un po’ di tempo continuai incessantemente a lavorare. Sul tavolino dei progressi iniziavano ad aumentare le raccolte di fogli, coerentemente raggruppati. Fogli dei quali, piano piano, cominciavo a comprendere i collegamenti, i significati. Si delineava di fronte a me il programma. 

Un giorno, tra il solito via vai di carte, mi soffermai su una riflessione che trovai su uno dei tanti fogli. 

La lessi diverse volte, a bassa voce e poi ad alta voce:

Commovente la democrazia dello spazio.
L’importanza non proporzionata ai centimetri quadrati.
Comprimo tra le mani
Una zolla o il mio cranio. 
Questa zolla che conterrebbe un uomo. 

Non ebbi il tempo per starci su ancora. Sentii dei passi all’inizio del corridoio. Subito mi tornò in mente l’incontro passato. Non fui sorpreso di scorgere ancora il bambino avvolto dalla luce. 

“Ei!” dissi. 

Non ebbi risposta. 

“Mi ricordo di te, sei già venuto tempo fa.”

La porta d’ingresso cigolava un poco. 

“Hai…hai bisogno?”

“Seguimi” disse il bambino.

“Ah…mi ricordo, anche l’altra volta mi dicevi di seguirti, ma se non mi dici dove e poi…poi ho sempre tanto da lavorare, vedi, come l’altra volta sono molto indaffarato…”

“Seguimi”.

Fissai incredulo e leggermente inquietato la figura. Vedevo dei capelli, non ne capivo il colore. Non sapevo bene come liberarmene.

“Seguimi”

“Senti no…devo finire di leggere questo…” presi il foglio per mostrarglielo, ma tornando con lo sguardo al corridoio il bimbo non c’era più. Silenzioso nell’andarsene. Guardai il corridoio lungo, la luce della corte. Sentivo i rumori di campagna. Di ricordi insabbiati. Dorati e polverosi. Quindi tornai al lavoro.

E altro tempo passò. 

Ed erano calati i fogli, me ne accorgevo. Toccavo spesso le raccolte e le costruzioni sul tavolo dei risultati. Mi si allargava qualcosa dentro me che non era il cuore. 

Ripensai al bimbetto, ogni tanto. Quel bimbetto ostinato. Insomma, mi dicevo, non vedeva quanto ero indaffarato? Non si accorgeva della concentrazione sacra del mio lavoro? Probabilmente no, ci stava. Gli altri non vedono il tuo programma. Non leggono le scritte sui tuoi fogli. A fatica le leggevo io, riflettei. 

Fatto sta che un giorno dei tanti, un giorno nel quale il bimbetto non esisteva nella mia mente sveglia, sentii il passo-passo. 

Tic-tic. Leggeri.

Dal nulla al tutto. Ecco subito tornarmi la sagoma nera in mente. Sapendo già, mi sporsi dalla sedia. 

“Ciao. Sei tornato” constatai senza sapere che dire. 

“Seguimi”

Chiaro, ancora a rompere le palle. 

“Senti basta. Vai a giocare e non disturbarmi per favore. Non ci sono i tuoi genitori? Eh? Poi dove vuoi che vada? Dimmi almeno dove vuoi che venga con te.”

Silenzio prolungato. Questa volta tacque per un minuto buono. Io sbuffai e tornai alla scrivania, decidendo di ignorarlo. Mi infilai bene con la sedia e presi i fogli. 

Poi sobbalzai. Voce! 

Una voce, dal corridoio si espanse fino a me, infiltrandosi negli oggetti, varcando i muri della casa. Della mia testa. Una voce che mi scaldò, mentre alle orecchie sentivo come se il bimbetto mi stesse decantando una poesia a bassa voce. Come se la sua bocca fosse a pochi centimetri da me.

“D’un pittore livornese sembra questa

Pelle pallido porcellana,

rosa sfumata simmetricamente,

guida ai solchi decisi

dai quali labbra sorgono, 

esplodono sotto controllo,

fiori perenni che sbocciano 

ogni secondo d’ogni giorno d’ogni mese d’ogni.

E ciò corniciato da movimentati marroni. 

Scuri. Scuri.”

Ad ogni parola il cuore tuonava, ad ogni spazio si sincronizzava con l’immobilità della casa. 

“Ah…eh…bella cosa ma…” non mi veniva da girarmi a guardare. 

“Bella ma…ma dopo. Dopo ora devo…” dissi a malincuore. Dissi sforzandomi. 

E allora ci fu un piccolo silenzio. Prima del boato. 

Già. 

Boom. Track. Veloce. Velocità. Dietro me una furia. Vento forte da destra e sinistra. 

Mi girai. Non lo vedevo. Vedevo solo caos. Potenza inafferrabile che saltava sugli scaffali, sulla scrivania, bam bum bim, e fogli all’aria. Fogli sradicati dalle raccolte all’aria. Non mi importava niente in quel momento. Vedevo potenza non più piccola. 

Vedevo là lontano. Vedevo che solo nell’immagine mi rimaneva l’amore. Relazioni invisibili nate dal silenzio della nullafacenza. Nate dal non. È amore? Ha senso quello immaginario scaturito dalla lode al non conosciuto…solo bellezza che ha lasciato traccia?

E terrorizzato chiusi gli occhi davanti all’assassinio delle mie costruzioni. Decisi di tenerli chiusi finché tutto non fosse finito. Li riaprì dopo parecchio. Nella stanza tutti i fogli ammassati qua e là, sopra una scrivania che poteva benissimo essere alta venti centimetri.

Che casino. 

Allora presi a mettere a posto i primi. Iniziai con legare alcuni fogli, il lavoro era tanto. Il lavoro non aspetta. Al mio fianco il banco dei progressi era vuoto.

Caspita…vuoto. Ma come. Avevo appena iniziato? Non mi pareva?

Almeno…

Sgranchì la schiena. Un soffio di vento arrivò dal corridoio. Mi sporsi a guardare il corridoio e la porta aperta sulla luce della corta. Il vento era tiepido.

Mi fermai a pensare sul da farsi. 

Di Andrea Annibaletti

Amante del cervello e dei film labirintici. In quanto a scrittura, Baricco una spanna sopra gli altri. Provo a scrivere poesie.

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