della redazione “Uno sguardo presente”
I LAOGAI, ossia i gulag cinesi – a cura di Emma Cappelletti
Laogai, letteralmente “riforma attraverso il lavoro”, è un termine che indica quei campi di prigionia, dove vengono rinchiusi milioni di Cinesi, spesso accusati e condannati senza un normale processo. Questa parola non è presente sul dizionario italiano ed è entrata in quello inglese solo nel 2003, nonostante la storia di questi gulag risalga alla prima metà del ‘900. Con il regime di Mao Zedong (1949-1976) venne incentivata la costruzione di “campi di lavoro” allo scopo di “rieducare” i controrivoluzionari e gli oppositori all’ideologia comunista. I Laogai non vennero mai chiusi e anzi sono molti coloro che continuano a esservi rinchiusi.
Quello che conosciamo delle condizioni di vita nei laogai è poco e proviene quasi esclusivamente dalle testimonianze dei detenuti fuggiti o scarcerati e rifugiatisi all’estero.
Questi campi hanno l’aspetto di piccole città o villaggi militari, spesso in zone totalmente isolate, non solo per le loro grandi dimensioni, ma anche per scoraggiare qualsiasi idea di fuga da parte dei prigionieri. Le poche informazioni raccontano di un’alimentazione scarsa, a base di sorgo o zuppa, dell’uso quotidiano della tortura come metodo punitivo e del lavoro forzato. Le cure mediche sono totalmente insufficienti e uno degli aspetti più macabri di questi campi è il commercio degli organi dei detenuti. I prigionieri lavorano circa 16 ore al giorno in miniere di carbone, campi da bonificare o industrie. I prigionieri producono oggetti e manufatti di ogni tipo, destinati al commercio interno, ma che vengono esportati all’estero, nonostante le leggi lo vietino. I laogai hanno lo scopo di distruggere e annientare il prigioniero dal punto di vista fisico ma soprattutto mentale e psicologico. Un processo obbligatorio è infatti quello di costringere la vittima a firmare un documento dopo aver ripetuto molte volte ad alta voce la propria colpa, in modo da distruggere la dignità e l’autostima del prigioniero.
A finire in questi gulag, oltre a coloro che vengono condannati per terrorismo e gli oppositori politici, vi sono stati praticanti di una religione, professori, giornalisti, imprenditori o anche semplici cittadini con contatti all’estero. Il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo, morto nel 2017, non riuscì a ritirare il premio, perché rinchiuso in un lagoai e anche Henry Wu, oggi noto attivista, venne rinchiuso per 19 anni senza nessuna colpa.
A oggi le stime parlano di un numero di detenuti compreso tra i 3 e i 5 milioni di persone, una situazione deplorevole che è costantemente ignorata.
Ma perché non se ne parla? La ragione è puramente economica e il grande legame commerciale che esiste tra il mondo occidentale e la Cina, che si compra così il silenzio di decine e decine di stati. In questo modo, milioni di persone vengono torturate, uccise e private dei loro diritti più basilari, ignorati dell’opinione pubblica mondiale, spesso all’oscuro di tutto ciò. Un altro esempio di come le logiche politiche prevalgano su quelle umane, a discapito di innocenti cittadini cinesi, molti dei quali ignorano l’esistenza di un mondo libero e democratico.
SUDAN: GLI STUPRI ETNICI – (a cura Serena Scalari)
Il Sudan è un paese ricco di storia e diversità etnica, ma purtroppo è stato teatro di numerosi conflitti interni e instabilità politica, che hanno lasciato cicatrici profonde sulla sua società.
Tra le molte piaghe che affliggono questa nazione africana, una delle più gravi è rappresentata dagli stupri etnici, spesso commessi in contesti di conflitto armato, come quello attualmente in corso (si veda articolo di Hajar Qacem dell’8/01/’24). Questi hanno un impatto devastante sulle comunità coinvolte e sollevano questioni cruciali riguardo ai diritti umani e alla giustizia.
Le violenze sessuali vengono spesso utilizzate come armi di guerra e strumenti di terrore, con lo scopo di umiliare e terrorizzare intere comunità. I gruppi armati sfruttano le tensioni etniche preesistenti per mantenere un ciclo di violenza e instabilità nella regione, mirando a compiere una forma di pulizia etnica oppure semplicemente per punire i civili sospettati di sostenere forze opposte. Questi crimini minano la coesione sociale e alimentano il risentimento e l’odio tra gruppi etnici, poiché la fiducia reciproca è compromessa e difficile da risanare.
Oltre alle donne, anche le ragazze e i bambini sono tra le vittime più vulnerabili di sfruttamenti e violenze sessuali. Alla brutalità dell’atto fisico e alle cicatrici psicologiche profonde, si aggiunge per le vittime anche la stigmatizzazione da parte delle loro comunità, a causa di tradizioni culturali e norme sociali.
Ci sarebbero tante altre storie da raccontare. Ne abbiamo scelte alcune.
Noi di MyFermi desideriamo invitare tutti ad alzare la voce contro ogni azione che lede i diritti umani di un singolo o di un intero gruppo umano.
Come ci ripete sempre Liliana Segre, non restiamo indifferenti e continuiamo a coltivare “speranza e fiducia” in un’umanità migliore.