di Khadija Charyf
Il blog MyFermi continua nel raccontarvi le attività extrascolastiche dell’istituto attraverso le interviste ai protagonisti. Dopo il mitico Matteo Molinari, è arrivato il momento di incontrare Marina Visentini, conduttrice del corso di teatro, alla fine del quale i nostri ragazzi si cimenteranno in uno spettacolo, che sarà messo in scena a Milano. Conosciamo dunque questa grande professionista direttamente dalle sue parole.
Grazie per aver accettato quest’intervista. Partiamo subito in modo diretto, che ne dice? Dunque, cosa l’ha portata a fare teatro nella sua vita?
Io ho iniziato a fare teatro perché lo facevano i miei fratelli. Mia sorella e mio fratello lo facevano all’interno di un’attività legata alla parrocchia, quindi al gruppo giovanile del paese e così li ho seguiti, ho provato e mi è piaciuto molto. Poi ho deciso di farlo diventare il mio lavoro, perché l’effetto del teatro su di me è stato sin dall’inizio di grande occasione espressiva e anche di una maggiore sicurezza rispetto al mio comportamento e al mio modo di fare. Intorno ai 26 anni ho frequentato una scuola per attrice a Modena, dove mi sono diplomata. In realtà in questo momento non salgo sul palco da diversi anni, perché mi sono specializzata in altri ambiti, sempre nel settore del teatro. Trovo che il teatro, comunque, abbia un’ottima e utile funzione sociale di aggregazione, di stimolazione della fantasia, della creatività e dell’immaginazione, tutte dimensioni che nell’essere umano vanno stimolate.
Il teatro è una buona palestra, perché comunque coinvolge tutti gli aspetti del corpo: la voce, il movimento, lo spazio. E poi il fatto che riproduca la realtà è un altro aspetto molto interessante.
Quindi da quanti anni fa teatro?
Io ho iniziato a 15. Poi per lavoro ho iniziato a vent’anni. Adesso ne ho 44. Lo faccio da 24 anni come lavoro.
Wow, non lo immaginavo.
In effetti è tanto rispetto alla media delle persone che si avvicinano a questa professione. Direi che sono una persona fortunata.
In questi anni di carriera c’è uno spettacolo che le è piaciuto maggiormente e che ricorda con molta felicità?
Nel 2012 ho portato in scena un monologo che s’intitola “Senza niente” e il sottotitolo era “Il Presidente”, perché, all’epoca avevo anche il ruolo di presidente della mia compagnia, che era ed è tuttora una cooperativa. E questo spettacolo mi è rimasto molto impresso, perché raccontava la difficoltà di essere sia artista sia imprenditrice. Se vuoi vivere della tua arte e non sei arrivato a dei livelli di notorietà per cui ti puoi permettere di fare solamente lavoro sul palco, devi attivarti per scrivere progetti, creare delle relazioni con le amministrazioni comunali, proporre corsi…. E far coesistere il lavoro dell’artista con quello dell’imprenditore non è semplice.
Ci si attiva anche per creare nuovi spettacoli basati su nuove idee, no?
Assolutamente sì. Io non sono la regista della compagnia a cui appartengo, ossia “Teatro Magro”, che ha un suo regista e direttore artistico. Io creo la regia di laboratori e dunque non scrivo per professionisti ma per i ragazzi che partecipano al mio laboratorio. Lo spettacolo è dunque l’esito di questo percorso, ma è effettivamente un testo originale.
Come ha scelto di mostrare questo mondo alle scuole?
I ragazzi delle scuole superiori, in piena età evolutiva e adolescenziale, vivono una fase delicatissima, in cui cambiano in un modo importante. Il teatro può aiutare a scoprire delle proprie capacità e ad acquisire maggiore sicurezza nel rapporto con l’altro, migliorando le proprie capacità di comunicare, di utilizzare il gesto e la voce nella relazione con l’altro: Con il teatro s’imparano anche il valore della parola e si sviluppa la creatività. Oltre ad essere anche un grande momento di aggregazione e quindi di socialità… pensa che qui al Fermi ci sono 42 iscritti! Sono tanti e il mio obiettivo è anche quello di facilitare la conoscenza l’uno dell’altro in un modo decisamente diverso da come si sta di solito in classe. L’idea è quella di aiutare i ragazzi nella formazione anche dell’autostima…Ecco, il teatro aiuta, a volte persino troppo, quando cioè qualcuno scade nel narcisismo.
O superbia?
Sì, superbia, esatto, bravissima. E infatti è molto più utile per chi è timido, per chi si imbarazza, per chi è introverso. Serve molto a questi caratteri e io mi inserisco in questa categoria: a 15 anni non ero un’espansiva, il teatro mi ha aiutata a superare l’insicurezza. Il teatro ti aiuta a tenere sotto controllo le emozioni negative che emergono quando si è in difficoltà: quando dovete fare un’interrogazione, per esempio, le tecniche apprese in un corso di teatro su come gestire il respiro, il movimento, lo sguardo… saper ripetere qualcosa a memoria… sono molto efficaci. Più conosco il mio corpo e me stesso più posso controllarmi in diverse situazioni della vita.
Davvero illuminante quello che dice. Ora ho una domanda un po’ più tecnica: il mondo in del teatro è un mondo difficile in cui entrare e lavorare?
Distinguiamo le diverse dimensioni del teatro. Il tipo di teatro che faccio io, che fa “Teatro Magro”, è legato molto al territorio. Non è che noi facciamo uno spettacolo e andiamo in tournée in giro per il mondo. Poi torniamo a Mantova, facciamo lo spettacolo e andiamo in giro di nuovo. Assolutamente no. Noi facciamo performance o spettacoli o laboratori che rispondono a una richiesta di Mantova. Ad esempio, Mantova deve parlare di cambiamento climatico: così ci chiedono di fare delle performance nelle scuole, per sensibilizzare i ragazzi al problema del cambiamento climatico. Quindi noi prepariamo la performance di 5 minuti da fare dentro le classi. Questo è un tipo di teatro contemporaneo che ascolta le esigenze della società e dell’attualità. Poi c’è la concezione classica del teatro, che si fa al Teatro Comunale o al Teatro Sociale. Ma tutte e due le strade sono dure. C’è tantissima concorrenza, quindi è molto difficile entrare in questo mondo. Nell’ambito del teatro territoriale è altrettanto duro, perché serve avere tante competenze e tante capacità. Bisogna saper scrivere un testo, saper recitare, ma anche insegnare e saper parlare con la committenza, come ad esempio l’assessore alla Cultura del Comune di Mantova. Insomma, è sicuramente difficile.
Bisogna quindi destreggiarsi.
Destreggiarsi e poi, soprattutto l’ambito della cultura, non è un ambito economicamente, molto riconosciuto. C’è ancora chi mi chiede se questo è il mio lavoro, perché è ancora nella testa delle persone che chi fa teatro, musica, cinema non può sopravvivere economicamente; invece si può, però con grande impegno e con anni di grande gavetta. Cosa vuol dire? La gavetta è quel lavoro, anche non pagato, per prepararsi il futuro, una situazione a cui ci si adatta nel proprio ambito pur di formarsi e poi emergere.
Ultima domanda, che riguarda il corso al Fermi e lo spettacolo che si farà poi a Milano. Può anticiparci qualcosa?
I nostri ragazzi parteciperanno al festival che si chiama “Living Action”, a Milano, all’Idroscalo. E questo laboratorio viene fatto in parallelo in altre 45 scuole in Lombardia. Queste scuole, a cui si uniscono quelle dello scorso anno, per un totale di 60, si troveranno tutte a Milano e nell’arco di dieci giorni presenteranno 20 minuti ciascuna di “esito”. Noi porteremo il “nostro esito”, che mette in scena il tema della responsabilità che la nostra lingua, la lingua italiana, ha nell’esprimere e nel rappresentare le persone anche nel loro genere. Adesso un tema molto presente è quello del maschile inclusivo, cioè quando ci rivolgiamo alla massa di cittadini. È nata infatti l’esigenza di affermare anche la presenza del femminile. Quindi cittadini e cittadine, signori e signore, ragazzi e ragazze, rompendo con la tradizione della lingua italiana che nella parola maschile includeva anche il femminile. L’altro tema è quello legato alla necessità di includere nella lingua italiana un modo non binario per parlare delle diverse identità, che oggi non si identificano più solo con il maschile e il femminile. L’anno prossimo invece il tema centrale sarà l’identità di genere e l’anno successivo ancora la parità di genere.
Quindi il percorso triennale si concentra sul tema dell’identità di genere.
Si chiama identikit. Stiamo parlando proprio di identità, l’identità personale da tutti i punti di vista. Si parte dalla lingua, perché la lingua comunque esprime una realtà e quindi quando parliamo dobbiamo cercare di rappresentare tutti.
Il problema sociale è quello di abituarsi al cambiamento, che da sempre spaventa. Noi siamo partiti da un libro di Vera Gheno che si chiama “Femminili singolari”, per scoprire che il femminismo e l’emancipazione femminile vanno declinate anche attraverso le parole perché siano affermate: ad esempio molte professioni hanno solo la versione maschile. E, come nella storia, quando è arrivata la donna a ricoprire quelle professioni, si è inventato il nome femminile e abbiamo imparato a usarlo. Pensiamo ad esempio al termine “sindaco”: lo abbiamo sempre usato anche per le donne, solo negli ultimi anni abbiamo iniziato a dire sindaca. O ancora, se una donna fa l’avvocato, perché non esiste il termine che ne definisca il genere?
Sì, ho saputo che la Crusca si è espressa contro schwa*, asterischi e genere neutro.
È un tema assolutamente caldissimo. In realtà non è l’Accademia della Crusca che dice a noi qual è la regola, ma siamo noi, usandola e usando la lingua, che determinano le regole che la Crusca poi adotta. L’importante è l’uso, cioè se noi iniziamo a usarlo, la Crusca lo adotterà e i dizionari lo inseriranno.
Grazie mille per il Suo tempo e per le Sue preziose riflessioni.
Grazie a te.
*Schwa è il nome di un simbolo grafico, ossia “ə”, una sorta di “e” rovesciata, per indicare l’assenza di vocale seguente o la presenza di una vocale senza qualità e senza quantità, quindi di grado ridotto. Di suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità, lo schwa è oggi usato nel linguaggio inclusivo per indicare coloro che non si identificano né con il genere maschile né con il genere femminile.