Vera Gheno è un’importante sociolinguista e attivista a livello nazionale, e avendo avuto l’occasione di averla come ospite durante un’assemblea, abbiamo deciso di farle delle domande.
di Contributore Esterno
Il suo lavoro ha quotidianamente a che fare con le parole. In che circostanza ha capito che le amava? In che modo amare la propria lingua significa amare di più se stessi e migliorare le connessioni con le altre persone? Cosa vuol dire occuparsi di sociolinguistica e come mai l’uso delle parole ha, a suo avviso, un impatto diretto nella realtà e nelle relazioni sociali che noi viviamo?
“Vedo inanzittutto la mia esistenza come una catena di fallimenti. Sono stati in particolare tre: di istruzione, lavorativi e di vita amorosa. Però vi porto un messaggio di speranza perché da ognuno di questi insuccessi é nato qualcosa di positivo.
Sono cresciuta in una famiglia di letterati: mio padre italiano e mia mamma ungherese. Potremmo definirli come dei radical chic. Per capirci: vivevamo in Toscana e non avevamo la televisione, solo moltissimi libri. Cosa fa dunque una bambina quando non ha la televisione in casa e la sua migliore amica é a 5 km di distanza? Legge, legge molto. Ho passato l’infanzia col naso fra i libri. Dopo ho frequentato il Liceo Classico con voti altissimi. Anche perché, oltre allo studio, non è che facessi molto altro. Il mio sogno, però, era salvare le foche: volevo fare Ingegneria Ambientale. Mi sono iscritta e ho passato Informatica. E dopo nove tentativi per superare Analisi Uno mi sono ritirata. L’ho vissuta come una grande sconfitta. Dal fondo di quel pozzo di amarezza mi sono iscritta a Lettere dove ho ritrovato la luce: sono venuta a conoscenza della Sociolinguistica. É stata la mia professoressa a farmene fare innamorare. Cos’é la sociolinguistica? In sintesi, é lo studio della società e delle trasformazioni della lingua e delle loro interazioni.
Da lì non ho più abbandonato la disciplina che mi ha accompagnato per tutta la vita. La scrittura è arrivata dopo, grazie a una mia studentessa di vecchia data. Il fenomeno Vera Gheno è nato quando avevo già quarant’anni.
Per quanto riguarda il mio motto, lo devo a mia nonna materna. Si tratta di un modo di dire ungherese che suona più o meno così: “a tutto c’é rimedio, tranne che alla morte.”
Come sappiamo, in italia stiamo vivendo un periodo di grave oppressione per il genere femminile: uno su tutti citiamo i femminicidi che sono sempre più frequenti. È una delle forme del patriarcato che impregna la società dove le donne vengono discriminate quotidianamente anche in maniera subdola da un punto di vista verbale. Come spiegherebbe il patriarcato a dei ragazzi? Come definirebbe il movimento e sentimento femminista e, secondo lei, che valore ha l’uso della lingua all’interno di questa lotta?
“Ci si riferisce ad una società definendola patriarcale quando ci si aspetta che maschi e femmine corrispondano a modelli definiti: l’uomo fa l’uomo e la donna fa la donna. Le donne in particolare sono quelle che ne soffrono di più poiché sono quelle ridotte alla sola funzione biologica, ossia alla funzione di fare i figli. Mi viene in mente un esempio recente, di una senatrice di Fratelli d’Italia (partito di Destra) che afferma chiaramente come sia necessario far tornare la voglia ai giovani italiani di fare i figli. Peró su come mantenerli, su come creare reti di supporto per le donne che vogliono lavorare oltre che avere una famiglia, nessun accenno.
Una società patriarcale é una società con comportamenti fissi, in cui se qualcuno esce dalla nicchia non va bene. Vedete, il femminismo è davvero di fondamentale importanza, come lo è stato in passato: basti pensare al suffragismo, alle pratiche del delitto d’onore, del matrimonio riparatore. Vi faccio un esempio: il libro di Olivia Denaro, parla della storia di Franca Vilora, una giovane donna che é stata rapita e stuprata. É stata la prima, nell’Italia degli anni Sessanta, a rifiutare la pratica del matrimonio riparatore. Pratica per cui, se venivi stuprata, lo stupratore poteva sposarti cosi da riparare alla violenza.”
Qual é il modo migliore per rimuovere il patriarcato? Si puó essere femministi anche se di genere maschile? É possibile creare un vero sentimento di sorellanza?
“La domanda che mi pongo io è piuttosto come si faccia davvero a non essere femministi? Come si fa a non desiderare una società in cui anche gli uomini possono essere quello che vogliono essere. Io sogno un mondo in cui chiunque possa venire a scuola con lo smalto, vestito con la gonna o come più desidera.
Purtroppo peró vi possono essere anche donne maschiliste e donne patriarcali. A ucciderle non è solo il sessismo. Frasi come “sposami e non lavorerai più” rappresentano una favola, un mito. Arriva il giorno, nella vita vera, in cui a una donna non basta più fare la guardiana del focolare: in quel momento é necessario avere la propria indipendenza economica. E qui mi rivolgo alle persone non di genere maschile presenti oggi: tenetevi strette la vostra autonomia perché solo così sarete libere. Io ho potuto divorziare perché avevo dei soldi messi da parte. Purtroppo mancano a volte i modelli di sorellanza. É importante proporre altri modelli di essere donna o uomo o chiunque ci si senta di essere.
Per quanto riguarda la domanda a proposito di donne che scelgono di adottare un nome al maschile per indicare le loro professioni io trovo che siano interessanti le motivazioni. Quando incontro donne che hanno compiuto questa scelta chiedo sempre il perché. Solitamente, in generale, le risposte si raggruppano in tre grandi categorie. La prima é quella che dice “non lo faccio perché suona male”: la trovo superficiale come motivazione. La seconda categoria mi colpisce e recita così: “non voglio svilire il proprio titolo con il femminile”. Questo è un chiaro esempio di introiezione del patriarcato. L’ultima categoria per me merita rispetto: chi non vuole farsi chiamare al femminile per evitare “rotture di scatole” é una motivazione che ha un fondamento visto che non siamo tutti nati per stare sulle barricate.
Sempre per rispondere alla domanda riguardo al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che sceglie di farsi chiamare al maschile, é una decisione figlia della Destra. La Destra in politica, fin da quando esiste, ha sempre manifestato fastidio per le questioni linguistiche. Eppure, il primo atto ufficiale di Giorgia Meloni é stato farsi chiamare al maschile: ma allora le parole sono importanti! Perché possiamo dire “la regina, la principessa o la cuoca” mentre “la presidente del consiglio” no? Cos’é che lo impedisce? In realtà nulla. L’unico ostacolo è una specifica visione della donna di cui Giorgia Meloni evidentemente è partecipe.”
Cos’é l’intersezionalitá spiegata in maniera estremamente semplice? Perché é importante avere un approccio intersezionale? Qual é secondo lei il legame?
“Intersezionalitá dice una cosa molto semplice: tendiamo ad appiattire le persone su una loro caratteristica. Noi in realtà siamo una raccolta di caratteristiche diverse, tante cose differenti che sono riassunte in una persona. É stupido riassumere per stereotipi.
Spieghiamo l’inter-sezione con l’immagine dell’incrocio stradale: una persona in piedi in mezzo a un incrocio non sa esattamente da quale parte arriverà l’automobile o se verrà travolta da più automobili da direzioni diverse in contemporanea. Kimberlé Crenshaw (la nota giurista e attivista statunitense che volle esplicitare la molteplicità e simultaneità dei sistemi di oppressione che coinvolgevano le donne afroamericane) afferma che l’insieme delle discriminazioni, la loro pressione complessiva, è diverso rispetto alla somma delle discriminazioni prese singolarmente. Dunque, lo sguardo intersezionale diventa necessario per cogliere la piena gravità della situazione.”
A proposito di politica italiana, intersezionalitá e grandi problemi del nostro tempo, volevo interrogarla su una sua riflessione. Uno dei messaggi che più mi ha colpita é “dare spazio al silenzio per ascoltare e apprezzare meglio il valore delle parole”. Lo condivido! Soprattutto lo trovo un messaggio forte in una società dove siamo tutti opinionisti e dobbiamo sempre a tutti i costi schierarci ed esprimere la nostra opinione su qualunque argomento. Partirei da qui per la prossima domanda: viste le difficoltà incontrate dalla “causa climatica” (mal compresa e vittima di banalizzazioni che ne celano la complessità e pericolosità), quale sarebbe secondo lei la migliore strategia comunicativa che i giovani attivisti per il clima dovrebbero attuare per far cambiare le politiche dei nostri governi?
“Io non so se qualcosa potrà cambiare fino a quando non si sostituiranno le persone che oggi stanno nelle posizioni di comando. Forse sarà necessario attendere che la generazione di Greta e la tua arrivino a ricoprire ruoli istituzionali. Al momento vi è troppo divario fra gli interessi capitalistici di tutte le persone che stanno ai vertici e gli interessi della comunità. Io non riesco a vedere una via d’uscita che vada oltre le piccole azioni dei singoli.
Penso che la tua generazione debba passare da una storia di attivismo a una realtà politica istituzionale. Si è diffusa una maggiore consapevolezza ma le persone non vogliono rinunciare a certi stili di vita e dunque secondo me moriremo tutti…”
Parlare di Gaza (ne ha parlato nell’ultimo ep del suo podcast), ricollegarmi a quello e alla differenza tra pulizia etnica e genocidio e l’importanza di non parlare di “conflitto”.
“Pubblicamente sui social non avevo mai detto nulla su Gaza perché non avevo nulla di intelligente da dire. Solitamente tendo a parlare solo degli argomenti su cui ho qualcosa di intelligente da esprimere, non a parlare per posizionamenti. Non ho nulla da dire se non che questa è l’ennesima follia disumana e che non capisco come si faccia a sovrapporre i piani “essere contro lo Stato di Israele” ed “essere antisemiti”. La politica aggressiva di Netanyahu è volta a svuotare la Striscia di Gaza ed è rivoltante. Ma cos’altro si può dire? C’è qualcosa d’altro da dire?”