di Ester Scopelliti, Pietro Casari, Ludovico Bisi, Giacomo Roncaia
L’Art. 1 della nostra Costituzione stabilisce che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”; all’articolo 4, “(…) riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Ciò mostra come, sin dalla sua fondazione, la nostra Repubblica contempla il lavoro come diritto e dovere del cittadino. Da esso dipendono, infatti, il benessere individuale, ma anche il progresso della società tutta e l’identità stessa della nazione.
Qual è, oggi, la condizione dei lavoratori in Italia? Veramente esistono condizioni favorevoli per accedere alle occupazioni scelte? Dove sono ancora riscontrabili le criticità e dove è possibile migliorare?
Un mercato chiuso
Prima di parlare dei disagi del mondo del lavoro, è utile richiamare alla mente alcuni fattori che rendono difficile accedervi.
Quello che, anzitutto, stupisce è che la domanda non manca, ma, per paradosso, il tasso di disoccupazione è molto alto. Questo è il risultato di un mismatch tra domanda e offerta lavorativa, soprattutto a causa di un tessuto economico, quello italiano, che si regge sull’esistenza delle piccole-medie imprese: la maggior parte focalizza la propria produzione su un unico bene, senza diversificare. Questo fa sì che la domanda di lavoro si incentri solo su alcune figure che, nell’insieme dei giovani italiani in cerca di lavoro, non sono riscontrabili, dal momento che questi o non hanno le competenze necessarie o, per converso, ne posseggono di superiori a quelle richieste.
Sussiste, come pare evidente, un palese cortocircuito tra il tessuto produttivo e la scuola. Come risolverlo? E, soprattutto, come far dialogare scuola e industria tutelando il principio di libera istruzione? Sono interrogativi importanti che sicuramente è necessario indagare per far sì che effettivamente lo Stato riesca a rendere il mercato del lavoro più accessibile di come, invece, non è.
Numeri o vite
Parlando dei principali disagi in tema di “tutela dei lavoratori”, è impossibile non menzionare il problema delle morti sul lavoro. Guardando le statistiche riguardanti il nostro Paese, si osserva con preoccupazione che nel 2020 si sono verificati ben 629 incidenti mortali: lo rende noto l’Istituto Nazionale e per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL). Questi numeri sono più di semplici statistiche: rappresentano vite perse, famiglie distrutte e comunità colpite nel profondo.
Tuttavia, è importante comprendere che essi non sono fissi e immutabili: variano di anno in anno e sono influenzati da una serie di fattori. Oltre alle circostanze specifiche di ogni incidente, la sicurezza sul lavoro è strettamente legata alle misure di prevenzione adottate dalle aziende e all’efficacia della legislazione in materia di sicurezza sul lavoro, non sempre adeguate. È importante che le imprese investano nella sicurezza dei propri dipendenti, implementando protocolli rigorosi, fornendo formazione specifica e garantendo che tutte le attrezzature e le strutture siano conformi agli standard di sicurezza.
Oltre a monitorare le statistiche e agire di conseguenza, è fondamentale promuovere una cultura della sicurezza sul lavoro in tutti gli ambiti, assicurare che le leggi e i regolamenti in materia di sicurezza sul lavoro siano chiari ed efficacemente applicabili al bisogno. Ogni individuo, sia datore di lavoro che lavoratore, ha la responsabilità di adottare comportamenti sicuri sul luogo di lavoro e di segnalare eventuali condizioni pericolose o pratiche non congrue.
Non si tratta solo di una questione di conformità normativa: è rispetto per la vita e la dignità di ogni individuo.
Caporalato e lavoro illegale
Il lavoro illegale è un fenomeno molto diffuso in Italia. Con questo termine si intende quel tipo di lavoro in cui il datore di lavoro non comunica al Centro per l’Impiego di aver assunto un dipendente.
Un incarico di tal fatta risulta più economicamente conveniente sia per l’imprenditore sia per l’impiegato, ma non offre alcuna copertura assicurativa al lavoratore in caso di infortunio e di licenziamento. Il problema riguarda 3,7 milioni lavoratori e, secondo l’Istat, vale 79 miliardi con un’incidenza sul PIL del 4,5%.
Un’altra piaga per il mondo del lavoro è rappresentata dal caporalato, un fenomeno di stampo mafioso che punta a reclutare manodopera illegalmente. I caporali, pagati in forma di tangenti, lavorano in svariati ambiti, tra reclutamento, mediazione con gli imprenditori e coordinamento dei lavoratori. Questi si trovano spesso ad operare in condizioni lavorative disagiate, con orari di lavoro indefiniti, retribuzioni minime e condizioni generalmente pericolose sotto il profilo della sicurezza.
Il problema è diffuso in tutta Italia, principalmente in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia con tassi di lavoro irregolare che superano il 40%; al Nord, invece, la presenza del caporalato si attesta intorno al 30%, con picchi di presenza in Lombardia, nelle aree del mantovano e del pavese, e in Veneto, tra i Colli Euganei e il territorio del Polesine.
Questo mercato vale 5 miliardi di euro e coinvolge in larghissima parte i migranti, che, oltre a subire la minaccia di un eventuale ritiro dei documenti, sono chiamati, talvolta, a pagare una quota di regolarizzazione.
Disuguaglianze lontane dal desistere
Preoccupante è, nel contesto italiano, il lavoro femminile.
Le donne hanno un tasso di occupazione più basso degli uomini e, a parità di mansione, guadagnano meno. Il divario retributivo di genere, in inglese gender pay gap, indica proprio la differenza media che sussiste tra i salari orari lordi percepiti dagli uomini e dalle donne.
In Europa, le lavoratrici guadagnano il 12,7% in meno dei lavoratori, mentre in Italia percepiscono il 5% circa in meno rispetto alla controparte maschile.
Risulta molto complesso interpretare questo dato: infatti, esso definisce non solo la differenza di guadagno per le stesse caratteristiche lavorative, ma anche la peculiarità delle professioni considerate. Potrebbe, altresì, dipendere dai differenti mercati di lavoro a cui uomini e donne hanno accesso. Per fare un esempio chiarificatore, secondo Eurostat, le donne europee lavorano più spesso nel settore pubblico, che ha entrate tendenzialmente inferiori rispetto al privato. Inoltre, la maggioranza sceglie un impiego in ambito umanistico, tralasciando la più redditizia sfera tecnico-scientifica.
I dati mostrano, inoltre, che il gender pay gap aumenta col crescere dell’età ed è tanto più evidente se si guarda al titolo di studio (il 29% tra i laureati).
“Non esiste un solo Paese né un solo settore in cui le donne abbiano gli stessi stipendi degli uomini” ha dichiarato Anuradha Seth, consigliera delle Nazioni Unite. Inoltre, a livello globale, l’occupazione femminile è del 27% più bassa rispetto a quella maschile.
A nostro avviso, questi dati indicano quanto ancora lunga sia la strada da percorrere per raggiungere una società in cui le donne siano sullo stesso piano degli uomini da un punto di vista economico e sociale.