In occasione del Giorno della Memoria analizziamo, attraversando la cultura ebraica, l’importanza del nome nel definire la nostra realtà e ricordiamo le terribili conseguenze quando questo viene meno.

di Davide Bagnoli

Il nostro nome ci è dato alla nascita, è ciò di più personale che abbiamo, ciò che ci distingue dagli altri e definisce la nostra persona nella società. Se questo può essere, o non essere, vero per un occidentale moderno, era certamente vero per gli ebrei vissuti ottanta anni fa, quando il nome fu tolto loro in un atto di barbarie e deumanizzazione.

Nell’ebraismo i nomi hanno un’importanza difficilmente immaginabile per noi, a partire proprio dal nome di Dio. Nel mondo semitico, infatti, il nome corrisponde alla realtà stessa di una persona e la possibilità per un uomo di pronunciare il Nome di Dio diventa una questione spigolosa. “Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano; perché il Signore non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano.” così cita il Terzo Comandamento ebraico, comandamento che l’interpretazione cattolica riduce a una rigorosa norma anti-bestemmia, ma è centrale e inflessibile nell’ebraismo.

Il popolo di Israele ovviò a questa proibizione utilizzando vari nomi più generici, come ad esempio “Elohim” (Dio) oppure “Adonai” (Signore). Tuttavia, esiste una parola per il Nome di Dio, che troviamo scritta nella Bibbia con il tetragramma biblico JHWH. Essendo solamente consonanti il Nome non può essere pronunciato ed è vietato anche tentare di farlo (durante la lettura, gli ebrei sostituiscono il tetragramma con Adonai), solo il sommo sacerdote una volta all’anno, durante la festività del Kippûr, ossia dell’Espiazione, poteva proclamarlo all’interno del Santo dei Santi, la parte remota e celata a occhio e orecchio umano del tempio di Gerusalemme.

Sempre nell’ebraismo l’atto di dare un nome non è cosa scontata. Nel libro della Genesi, Dio crea l’uomo, Adamo, e gli affida il compito di dare un nome agli animali. Più in generale, quindi, l’uomo venendo a conoscenza delle cose, una volta conosciute, ha il compito di dar loro un nome. Cosa vuol dire? Il fatto che nella tradizione biblica si riteneva che il nome dovesse esprimere l’essenza, lo scopo e la natura stessa della cosa designata. Per cui la scelta del nome non doveva essere buttata lì a caso, ma doveva indicare una qualificazione della cosa stessa. Il nome, in quanto tale, serve per designare una cosa e in quanto parola è convenzionale, ma una volta che l’umanità si è messa d’accordo sul nome, esso diventa necessario per esprimere ciò che significa. Il compito dell’uomo non è di creare le cose, ma di darle significato.

Cosa comporta, viceversa, togliere un nome? Durante la Shoah, nei principali campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau gli ebrei erano soggetti ad alcune delle più grandi atrocità della storia, tra le quali il “tatuaggio identificativo”.  Quando i deportati scendevano dal treno, dopo il controllo di idoneità al lavoro, venivano tatuati sull’avambraccio sinistro con il loro numero di registrazione, che dovevano essere capaci di recitare, in tedesco, ad ogni chiamata e che da quel momento sarebbe stata la loro identità.

Abbiamo detto come il nome, non sia solo uno strumento per indicare una persona, ma ne rappresenta l’essenza stessa e privare una persona del nome è privare la persona della sua umanità, della funzione per cui sono al mondo. L’uomo, svuotato di sé, diventa carcassa.

Domani è il Giorno della Memoria, prendiamoci un po’ di tempo per pensare al nostro nome, a quello dei nostri cari e a quello dei milioni di ebrei morti durante la Shoah.

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