Interrogarsi su chi sia razzista e chi no è un quesito superato: non è colpa di
qualcuno in particolare, il paradigma è ormai interiorizzato e sistemico

di Greta Bellelli

Si dà per scontato che i neologismi spaventino, ma così non è. Se abbiamo assimilato nel linguaggio corrente espressioni come “tampone antigenico rapido” “sanificazione”, si può fare lo stesso per sradicare un fenomeno globale come il RAZZISMO STRUTTURALE, definito col più ampio termine RAZZIALIZZAZIONE. L’enciclopedia Treccani, a tal proposito, riporta questa parola tra i neologismi. Nel 2022 hanno dunque preso la parola le persone razzializzate, per denunciare le “strutture razziste” della società italiana, a cominciare dalla lingua e dai molti suoi termini, capaci sia di veicolare violenza razziale sia di dissimularla. La questione ha interessato anche il Parlamento europeo attraverso la proposta di risoluzione sulla giustizia razziale, la non discriminazione e la lotta al razzismo nell’UE. La lingua è lo specchio della società: occorre interrompere la violenza linguistica per interrompere la violenza sociale e viceversa. La razza non è un dato spontaneo della nostra percezione, è l’interiorizzazione di un modo di pensare razzializzato (bianchezza-nerezza). Proprio a causa di ciò, nominare le espressioni quotidiane del razzismo suscita un “meccanismo di difesa”, ovvero una reazione per respingere e negare il problema. Mettersi in ascolto e non allontanarlo, partendo dalla lettura di questo articolo, può essere una prospettiva politica di CAMBIAMENTO.

Dalla piantagione coloniale (tratta degli schiavi) all’imperialismo contemporaneo (diaspora africana, rom e sinti, cinesi, albanesi…), la storia si stratifica in una molteplicità di forme quotidiane di pregiudizi che plasmano i nostri rapporti sociali. Un filo rosso connette i gesti del singolo SUPREMATISTA (più o meno consapevole) alle istituzioni che fanno del razzismo una struttura sociale ed economica. È RAZZISMO STRUTTURALE quello dell’agenda del governo 2022 che parla di politiche dei porti chiusi, di esseri umani ridotti all’appellativo di “carico residuale”, di supremazia dello ius sanguinis (italianità di sangue) sullo ius scholae. Le conseguenze della razzializzazione si colgono nella cronaca: le morti insabbiate di Yusupha Joof, carbonizzato in un ghetto bracciantile, di Victor Peter, schiacciato dal carico lavorativo, di Arshad Jahangir, suicidato in un centro di rimpatrio, fino al violento arresto del calciatore Tiemoue Bakayoko. I dati del rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione peggiorano ulteriormente il quadro disegnato: lavori non qualificati, sicurezza assente, ostacoli linguistici e burocratici, caporalato e ricattabilità legata al permesso di soggiorno. La realtà delle persone razzializzate spazia dalle micro aggressioni quotidiane (si veda episodio Paola Egonou) alla proliferazione di rappresentazioni mediatiche streotipate, ipersessualizzate e mostrificate (si veda la denuncia del blackface del programma Tale Quale Show).Basterebbe lasciare spazio alle loro esperienze e al loro dolore e il gioco delle parti sarebbe stravolto. Lasciando che siano le persone razzializzate i soggetti del discorso, “lo schema storico razziale” si ribalta e diventano visibili le INVASIONI dietro le scoperte, lo SFRUTTAMENTO dietro l’accumulazione di ricchezza, le storie di RESISTENZA dietro a narrazioni nazionali che costruiscono l’altro in antitesi all’identità nazionale.

È concluso il tempo di un antirazzismo che schiera in prima linea chi non lo vive. Interrogarsi su chi sia razzista e chi no è un quesito superato. La strategia vincente è partire da chi il razzismo lo sperimenta sulla propria pelle e porsi in ascolto e in dialogo, decolonizzando gli immaginari e i modi di stare in relazione, ripensando in modo radicale il concetto di singolo e quello del fare comunità e assumendosi, nel proprio quotidiano, la responsabilità di cittadinǝ antirazzistǝ e inclusivǝ.

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