Una tra le horror stories più rappresentate al cinema, eppure continuiamo (erroneamente) ad associare il nome dello scienziato a quello del suo mostro.

Di Hajar Qacem

Nel 1816 una giovanissima donna iniziò a comporre quella che molti considerano la prima vera opera di fantascienza, che avrebbe lanciato uno degli attacchi più duri mai scritti alla scienza moderna.

Mary Shelley nacque a Londra  nel 1917 da genitori molto noti tra i circoli intellettuali del tempo: Wiliam Godwin e Mary Wollstonecraft. Quando Mary aveva 16 anni scappò in Europa con il famoso poeta inglese Percy Shelley e iniziarono una relazione fortemente ostacolata dal padre di Mary perché il poeta era già sposato e aveva già due figli. Nonostante l’opposizione del padre, Mary sposò Percy Shelley due anni dopo. I due vissero in Italia per quattro anni fino alla morte del poeta, ma in seguito Mary decise di tornare in Inghilterra con il loro figlio. La Shelley scrisse molti libri durante la sua vita, ma oggi è ricordata maggiormente per il suo Frankenstein, che allude all’aspirazione degli scienziati di poter fare tecnicamente qualsiasi cosa sfidando le leggi naturali.

L’idea di questo famoso romanzo sorse mentre lei e suo marito si trovavano con Lord Byron (altro noto poeta inglese) nella villa vicino al lago di Ginevra. Durante una notte di tempesta, Byron suggerì al gruppo di scrivere una storia fantasy. In un primo momento Mary non aveva alcuna idea, ma fu influenzata dai racconti gotici del periodo e anche dai recenti esperimenti di un medico italiano (il Dottor Galvani) che aveva animato le gambe di rane morte con l’elettricità. Poi, una notte ebbe un terribile sogno in cui le apparve un terrificante mostro: nacque così Frankenstein.

La storia narra di Victor Frankenstein, uno scienziato intelligente e sensibile che tenta di sfidare Dio e le leggi naturali creando una nuova forma di vita mediante l’utilizzo di parti di cadaveri: una creatura alta più di due metri e fisicamente deforme, dotata di una forza sovrumana, che resiste al freddo intenso e sopravvive con un’alimentazione minima. Il mostro non ha nome, perché non ha una vera identità e non è una creatura soprannaturale.

Il tentativo di Victor di sovvertire il naturale ordine delle cose lo porta a subire una punizione estrema e lo condanna a una vita di sofferenza e solitudine.

Frankenstein mostra come la tecnologia non sia mai sganciata dal contesto socio-culturale nel quale le innovazioni nascono e sono messe in atto, come dimostrato anche dalla contemporaneità. Per esempio, le tecnologie della riproduzione assistita hanno certamente portato gioia a molti genitori incapaci di concepire; tuttavia, dobbiamo anche riconoscere come le nozioni socioculturali della maternità influenzino o limitino la ricerca.

Oppure, le tecnologie mediche offrono la possibilità di prolungare la vita umana; tuttavia, questa ricerca di longevità solleva delle preoccupazioni riguardo alla medicalizzazione dell’invecchiamento e agli scopi delle cure a fine vita.

Frankenstein ci offre un momento di pausa, in cui riflettere sui tipi di conoscenza che vogliamo ricercare per creare tecnologie mediche che migliorino – piuttosto che danneggiare – la vita umana.

Ciò che ci chiediamo alla fine è se la scienza può controllare totalmente la vita e la morte. Possiamo competere con Dio?

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