Se una società non passa attraverso una revisione della sintassi, non può generare un cambiamento autentico e duraturo

di Ingrid Bellelli*

Qualche giorno fa mi è arrivata la proposta di scrivere in merito al 25 novembre, che, per chi non lo sapesse, è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Come rifiutare? Però non mi va di parlarvi di femminicidi, di stupri o di violenza domestica. Oggi non voglio snocciolare dati angoscianti. Voglio solo invitarvi a una riflessione sulla violenza di genere che ci circonda, si diffonde, si ingigantisce e ha come mezzo la parola, il linguaggio.

Ogni lotta riguardante la disparità sociale è anche una questione linguistica. La lingua è un vero e proprio campo di battaglia ed è importante ripeterselo quotidianamente: essa può essere portatrice di valori tradizionalisti e discriminatori oppure di valori inclusivi e progressisti.

La sociolinguistica si occupa di studiare il rapporto tra assetto sociale e comunicazione. La nostra infatti è una società della comunicazione e chi non sa o non può comunicare, in un certo senso, rimane ai margini. La violenza inizia laddove qualcuno è stato privato a lungo o ancora è privato delle parole per esprimersi. È proprio il “privilegio” di potersi esprimere che ha fatto sì che tutta la storia sia stata scritta da uomini e, di conseguenza, anche il linguaggio che tuttora usiamo.

Prima di andare effettivamente a vedere quali sono le dinamiche autodistruttive della nostra comunicazione, vorrei spiegare una parola appena citata: “privilegio”. Tale premessa è necessaria a stroncare in anticipo chi già si è messo sulla difensiva. Tutt3 o quasi abbiamo assistito a  uomini che, in risposta ad “accuse” di sessismo, reagivano con esclamazioni quali “Eh… ma generalizzate! Non tutti gli uomini sono così” oppure “Esistono tanti uomini porci quante donne”. Ci tengo a sottolineare che la critica nei confronti di una società patriarcale non vuol dire avercela con gli uomini! Nella nostra quotidianità è evidente che i maschi bianchi eterosessuali cisgender abbiano un ruolo privilegiato: fanno statisticamente meno fatica ad ottenere QUALSIASI cosa. Perché vergognarsi ad ammetterlo?

Detto ciò torniamo al linguaggio: il nostro presenta forme ed espressioni legate ad una società patriarcale. Nella nostra quotidianità usiamo parole ed espressioni che ormai sono normali ma che portano dentro di sé ancora la concezione di donna come oggetto sessuale subordinato all’uomo o come “sfornatrice” di bambini. Prendiamo per esempio tutte quelle “parolacce” a sfondo femminile – puttana, troia, vacca -, spesso accostate alla parola “madre”, usate con leggerezza perché è “più che normale” farlo.  Ma siamo sicure e sicuri che continuare a sostenere una comunicazione basata su termini sessisti non influisca negativamente sulla costruzione di una società giusta ed equa?

E quindi ecco un’altra forma della disparità di genere: la violenza verbale. Essa si manifesta con utilizzo di sarcasmo e battute. E spesso si trasforma in violenza psicologica, che, proprio perché basata “solo” su parole, viene messa in secondo piano rispetto alla violenza fisica. Bisogna leggere la violenza al di fuori del paradigma riduzionista che confina la violenza solo al femminicidio, normalizzando le altre forme.

Il linguaggio ha una dimensione di potere capace di generare un rapporto di subordinazione che sfocia in una condizione di abuso, garantita da una manipolazione linguistica. Gli obiettivi dell’abuso linguistico vanno progressivamente dalla destabilizzazione e annullamento della personalità, al sabotaggio della capacità di percepire e discernere, fino alla riduzione al silenzio.

Le molestie verbali fanno leva sulla sessualizzazione dei corpi, che “devono” essere attraenti, e sui comportamenti femminili stereotipati e socialmente condivisi da ambo i sessi. Un esempio? “Te la sei cercata”. Queste frasi sono dette tanto dagli uomini quanto dalle donne che hanno loro stesse messo le radici in una società che ti definisce accettabile solo se sei in un certo modo.

 

Il linguaggio però non è statico e immutabile ma dinamico e soggetto a cambiamenti, non dimentichiamocelo! Quindi, oltre a permettere di far sentire la propria voce, la parola ha l’obiettivo di promuovere il cambiamento volto al superamento della parte più retriva della società.

In fondo oggi essere sessisti o razzisti è inaccettabile socialmente, nessuno lo esibisce pubblicamente in modo sfacciato. Si può leggere tra le righe ma non viene detto espressamente. Qualcosa sta succedendo ed è un cambiamento positivo.

La lingua è un atto politico, uno strumento che le transfemministe usano come luogo di sviluppo della lotta. E da essa sono nati nuovi termini per definire la violenza di genere: fino a pochi anni fa in Italia la parola femminicidio non esisteva, ma il fenomeno ovviamente sì e veniva chiamato raptus di gelosia, dramma per troppo amore… Cambiando la parola è cambiato il valore e il senso che diamo al fenomeno: non più una questione individuale ma dell’intera società, un dramma collettivo di cui tutti dobbiamo essere responsabili.

Un uso non sessista della lingua prevede l’adozione di stratagemmi linguistici volti ad evitare il maschile universale e ad includere il femminile e le soggettività non binarie.

In tal modo viene restituito spazio e dignità a chi ne è stato privato e si agisce per modificare l’immaginario collettivo. Tra questi accorgimenti ci sono schwa, asterischi, desinenze in -u: nessuna di queste strategie è definitiva, alcune risultano pure scomode da usare, ma sono il più grande esempio di uso politico della lingua.

L’obiettivo non è cambiare la lingua, ma cambiare la sintassi della società: la forma linguistica è una conseguenza e una causa della forma sociale.

 

* Ingrid Bellelli è una studentessa di IV del liceo Belfiore…

MyFermi si apre a nuove collaborazioni, pronto ad ogni contaminazione inclusiva.

 

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