Il conflitto dilaga, si insinua nel tessuto sociale e nella nostra psiche, diventando parte quotidiana della nostra realtà. Ma da dove nasce il conflitto? Si può risolvere?

Di Greta Belleli

Conflitto è una di quelle parole che pesano sulla bilancia della vita. Nove lettere che non bastano a contenere neanche la sola idea di cosa sia. Sì, perché ci sono le forme tradizionali di conflitto e poi ci sono i conflitti fatti di parole, gesti, sguardi, oggetti, messaggi. Qualunque cosa che possa essere pensata può diventare causa, mezzo o conseguenza di un conflitto. Ma cos’è questo conflitto?

Un conflitto non è solo uno scontro tra persone, è una mancanza di rispetto. Il conflitto è frutto di una carente flessibilità e di una chiusura mentale. Si crea quando vi è una divergenza di idee seguita da incomprensione. È figlio di un atteggiamento di presunzione e prevaricazione del proprio pensiero su quello altrui.

Che sia chiaro, non è sbagliato avere idee diverse gli uni gli altri; al contrario è la diversità la ricchezza dell’umanità. Ma una diversità che si risolve nel confronto, l’opposto del conflitto.

Un confronto è una condivisione bilaterale di idee e posizioni. La parola “confronto” in sé necessita di vedute differenti, ma anche di ascolto e condivisione e soprattutto di un atteggiamento di rispetto nei confronti dell’altro. Uno dei più notevoli doni dati all’uomo e alla donna è quello di ragionare e ragionare significa poter cambiare, poter constatare secondo dopo secondo se ciò che ci si presenta nella mente è giusto, sbagliato, vero o falso secondo le nostre conoscenze fino a quel momento.

Finché non capiremo che l’altro, il diverso, ci arricchisce anziché distruggerci, continueremo a vivere nell’inquietudine e nell’angoscia. Perché vivere nell’incomprensione significa vivere contro natura. L’arroganza, che apparentemente rafforza il nostro io, non fa che alzare muri tra noi e gli altri. Così la presunzione.

Non dobbiamo uniformarci, essere tutti uguali, per evitare il conflitto. Non sarebbe che un altro gesto disumano e controproducente. Conosciamo fin troppo bene gli effetti collaterali del conformismo. Dobbiamo rispettarci per evitare il conflitto. Tollerarci. Non è indispensabile comprendere la posizione e le idee altrui, ma comprendere che esistono idee diverse che valgono tanto quanto le nostre. L’ignoranza è uno dei più grandi nemici dell’umanità. Così come l’indifferenza.

Ormai il conflitto permea la nostra quotidianità, è presente dentro di noi, nelle nostre parole e nei nostri gesti ancor prima che si presenti a noi qualcuno contro cui indirizzare la nostra contrarietà. Eppure è un ostacolo alla buona salute. Siamo talmente abituati a crogiolarci in conflitti che abbiamo paura della serenità? È forse per proteggerci dalla pace, troppo noiosa per l’uomo e la donna del ventunesimo secolo, che ci facciamo la guerra?

Facciamo guerra prima di tutto a noi stessi, perché i conflitti interiori sono i più prematuri, i più dolorosi, i più difficili da superare e i più disastrosi. Sentiamo sulla nostra pelle la forza oscura dell’incomprensione. Perché non comprendere qualcosa o qualcuno è brutto, ma non comprendere se stessi è devastante. E non uso questa parola a caso. Imparare a sentire le proprie necessità, le proprie capacità, i propri piaceri e i propri limiti è tanto indispensabile alla vita quanto difficile. Tutti questi ostacoli a una vita pacifica sono dovuti anche al fatto che concetti come il bene e il male, il giusto e lo sbagliato non sono assoluti, ma cambiano per ogni singolo individuo. Perciò giudicare quali comportamenti siano corretti o meno diventa spesso fonte di insicurezza, perché ci dobbiamo basare su parametri personali, di cui nessuno ci garantisce la sicurezza. A maggior ragione se si tratta di giudicare sé stessi: in tal caso siamo esageratamente più insicuri nelle nostre convinzioni. Il problema si crea quando quest’insicurezza cambia il nostro modo di vivere. Perché, diciamocelo, per cambiare occorrono consapevolezza, coraggio e tanta fatica, in un contesto di incertezza e fragilità.

Quando non comprendiamo i nostri stessi pensieri ne derivano azioni ingiustificate e irrazionali che aumentano il nostro turbamento. Quando non conosciamo più i nostri limiti o cosa ci fa star bene e cosa male, perdiamo consapevolezza e ci sentiamo lontani dalla nostra identità. Così cominciano i conflitti interiori. Quando manca una corrispondenza tra i nostri sentimenti, i nostri pensieri e le nostre azioni, ci sentiamo distrutti dentro.

Naturalmente anche il contesto esterno ci influenza molto. Mi riferisco ai conflitti verbali e ideologici, che costituiscono spesso l’input per conflitti armati e fisici. Nessun gesto fisico che crea danno è fatto senza una precedente motivazione ideologica o senza uno stato di disagio emotivo come la rabbia, la tristezza, la paura, l’angoscia.

Tuttavia il vero snodo conflittuale è costituito dai pensieri. George Orwell l’ha spiegato bene in “1984”: chi sarà in grado di dominare il pensiero dominerà il mondo. Se ognuno di noi fosse in grado di dominare i propri pensieri sarebbe in grado di dominare il proprio mondo.Purtroppo, però, dominare i propri pensieri è impossibile; dovremmo quantomeno accettarli, ascoltarli e soprattutto rispettarli. Riuscire in questo impegno verso noi stessi è indispensabile per riuscire ad agirlo, poi, nei confronti dei pensieri altrui.

Non condanniamoci, non attacchiamoci, non odiamoci. Se impereremo a controllare i pensieri negativi su noi stessi sapremo più facilmente ascoltare gli altri, considerare le loro idee, accoglierle. La fase di sospensione del giudizio, che i greci chiamavano epochè, è fondamentale per una pace condivisa. E prima di tutto per una pace interiore.

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