“Il rivoluzionario più radicale diverrà un conservatore il giorno dopo la rivoluzione.” (Hanna Arendt)

Di Giorgia Francesca Stranieri

Simone Weil e Hanna Arendt sono due filosofe del ‘900 e la loro parabola vitale ha intersecato quella delle due guerre mondiali. Hanno avuto modo di prendere coscienza delle conseguenze delle scelte politiche di quel tempo e delle atroci azioni militari ad esse collegate. Nonostante appartengano allo stesso contesto, hanno due idee completamente opposte di politica.

Che cos’è la politica?
Nella visione di Hanna Arendt la politica è lo spazio della libertà e dell’azione, che si manifesta nel pluralismo e nel dialogo. Gli individui si rivelano attraverso le parole e le azioni, valorizzando, così, la sfera pubblica. Tale concezione è ispirata al mondo greco e alla polis ateniese, in particolare, ove si è affermato il modello partecipativo. Arendt crede in una politica attiva, pluralista e laica. Simone Weil, d’altro canto, ha una visione diversa, dal momento che intende l’agire politico in modo ascetico e spirituale. In tale prospettiva, la giustizia esige il sacrificio e la rinuncia al potere come ambizione egoistica.

Come si può fare politica “senza potere”?
Weil ha una concezione di politica ideale; considera l’esercizio della giustizia una forma d’arte. Sostiene, altresì, che, per fare politica, è possibile fare a meno del potere: questo, infatti, è considerato solo un mezzo per agire concretamente.
Hanna Arendt è molto più concreta, anche perché le sue riflessioni sono frutto della sua storia e della sua esperienza in quanto ebrea. Scrive che il potere è la “capacità di costringere all’obbedienza, dinanzi ad un’arma da fuoco”. Indifferente che tale azione sia esercitata da un ufficiale o da un criminale: cade, infatti, ogni distinzione tra potere legittimo e illegittimo. Il potere imposto violentemente distrugge le ragioni per cui la politica è nata.
Secondo Arendt, il potere autentico deve avere natura collettiva e non essere proprietà di un individuo solo. Conseguentemente, rivolge critiche all’universalismo astratto dei diritti dell’uomo (es. nel saggio “Noi profughi”): i diritti sono validi solo se esiste una comunità politica in grado di garantirli ed è il popolo che sceglie a chi dare il potere.

Perché l’uomo “vuole” la politica?
Sembrano sempre attuali le riflessioni di Aristotele, che definì l’uomo come “animale politico”, ad indicare che la natura umana è tale da essere orientata a vivere in società, Questo significa che l’uomo non può essere autosufficiente e ha bisogno di altri per soddisfare i propri bisogni e raggiungere la piena realizzazione. La politica, per Aristotele, non è semplicemente una forma di organizzazione sociale, ma è la condizione essenziale per la vita buona e la realizzazione dell’uomo.

Perché l’uomo prevarica sugli altri?
Per spiegare questa tendenza dell’uomo basta ricondursi alle riflessioni di Thomas Hobbes
L’espressione latina “Homo homini lupus” (“l’uomo è un lupo per l’uomo”) esprime un’idea di conflitto e competizione intrinseci alla natura umana. Secondo il filosofo inglese, in uno stato in cui non ci sono leggi o autorità, gli uomini si percepiscono come nemici e sono pronti a tutto per sopravvivere, rendendo la vita “solitaria, povera, brutale e breve”.

Le idee espresse da Weil e Arendt appaiono entrambe valide: l’unica caratteristica che va ad incidere sull’efficienza è proprio la realtà: la visione di Weil è utopica, mentre Hanna Arendt auspica un’azione politica efficace e concreta. Inoltre, come la citazione contenuta nel sommario dimostra, pur bypassando l’elemento bestiale sottolineato da Hobbes, si incorre comunque nel rischio di ottenere il potere e di iniziare ad esercitarlo non in funzione del benessere collettivo, ma per mantenere la propria posizione di privilegio: il “conservatore”, infatti, non è solo colui che esprime le posizioni della classe storicamente dominante, ma anche chi, letteralmente, “conserva” le conquiste fatte nel corso della sua vita, che riassume anche le generazioni precedenti.
Anche questa ammissione sottolinea come Arendt non perda mai di vista il contesto storico e la concretezza dell’azione politica.

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