Lui non aveva creduto abbastanza

di Andrea Annibaletti

“Quanto manca, capo?” chiede Secondo Anno.

“Non molto…500 metri ormai” risponde Capo.

In silenzio i cinque esploratori proseguivano con passo rampante sul sentiero immerso nel bosco.
Un fresco pulito s’insinuava nelle loro magliette, e dava sollievo alla schiena sudata sotto i loro zaini.
L’ultimo tratto di percorso era in salita ed era ombreggiato dagli alti pini scuri.
Sotto gli scarponi dei cinque esploratori il terreno era soffice, spugnoso. Sarebbe stato bello percorrerlo a piedi nudi, pensò Primo Anno, se solo non ci fossero state le spine giallastre dei pini. Poi c’erano anche i formiconi. Formiconi neri ed enormi che però, a detta di Vice, non mordevano neanche sotto tortura.

Rampavano sulle radici nude affioranti dal terreno. Le vene degli alberi, pensò Terzo Anno. Superavano i piccoli ruscelli sussurranti. Le vene della terra, pensò sempre Terzo Anno.
Ma a rendere piacevoli quegli ultimi metri di viaggio erano i suoni della natura.
Talvolta una veloce mitragliata del Picchio giungeva da lontano. E ancora, decine di cinguettii diversi. Decine di spartiti diversi erano suonati in quel bosco quella mattina.
Ma il costante sottofondo era opera del vento, che trasformava rami e foglie in cembali leggeri e sonagli.
Anche gli esploratori avevano il proprio strumento. Lo sbattere delle pentole e delle tazze s’innalzava dai loro zaini, a completare la melodia del tutto.

Superarono qualche centinaio di metri e uscirono dalla zona boschiva. Il terreno morbido lasciò spazio alla ghiaia. Il tratto seguente non era più protetto dai pini, venendo dunque riscaldato dal sole ancora debole delle dieci.

“Che palle il sole” disse serio Vice, mentre Capo e gli altri erano in silenzio da ormai mezz’ora.

Un sentiero bianco che, nascendo dall’oscurità del bosco, saliva verso l’alto, verso la cima. E tutt’attorno a questo sentiero bianco solo prateria.
Una lenta salita tra il bianco, il verde e l’azzurro.
I cinque esploratori seguirono la stradina fino ad arrivare ad un tratto pianeggiante di prato, non molto distante da uno strapiombo. Il luogo designato.

“Proprio qui? Vicino ad un dirupo?” chiese Secondo Anno.

“Qui ci è stato detto e qui monteremo la tenda” affermò Capo senza lasciare spazio ad obiezioni.

I ragazzi allora misero a terra i sacchi contenenti i vari pezzi della tenda. Il povero Terzo Anno, l’addetto a portare la paleria, dovette pizzicarsi più volte il braccio per riacquisirne la sensibilità.
Si misero quindi all’opera. I più esperti partirono di buona lena, mentre Primo Anno e Secondo Anno si limitarono a tirare i cordini e a piantare i picchetti.
Sopra le loro teste ora il sole si faceva più severo e il vento iniziava a stancarsi.
In meno di venti minuti avevano montato tutto. Tutto era teso e solido.
Non appena si piantò l’ultimo tirante, tutti gli esploratori, rossi e bagnati, scattarono verso l’interno della tenda. Capo aprì intelligentemente il retro del catino per permettere a quello smorto soffio di vento di entrare.

Una volta sdraiati, tutti furono costretti a prendere atto che gli zaini erano fuori a cuocersi al sole. Controvoglia si alzarono per uscire dal fortino.
Il pranzo prevedeva i soliti panini. Divisi, addentati, scambiati. Chi ne mangiò uno e chi due.

“Guai a voi se vedo una briciola dentro” sentenziò Capo.

Dopo aver consumato i cinque si dedicarono a preparare il letto dove crollarono all’istante. Neppure il caldo serra li avrebbe tenuti svegli.
Il risveglio fu bagnato. Puzza di sudore e calze.
Il sole però era ora più benevolo. Alle ore cinque i cinque esploratori avevano in programma di pregare in cerchio, seduti sull’erba, tra le api e le cavallette.

Mentre Capo, Terzo Anno e Secondo Anno avevano già iniziato la loro liturgia, Primo Anno si soffermò con lo sguardo verso la cima del monte attiguo.
Anch’essa era coperta da un’uniforme prato verde, calpestato da un gregge di pecore al pascolo insieme al loro pastore.

“Chissà che fine faranno?” rifletté ad alta voce Primo Anno, forse per sbadataggine o forse sperando di essere sentito.

“Non ti capisco” rispose vicino a lui Vice.

“Intendo che mi sono sempre chiesto che fine facessero quelle bestie che sembrano cosi tranquille e incontaminate qui in montagna”

“Si ho capito questo, ma non capisco perché ti ostini a sporcare ciò che hai tra le mani”

Primo Anno si osservò i palmi senza capire.

“Che senso ha sporcare l’unica cosa che puoi toccare, che puoi percepire, con cose che sono state o che forse saranno”.

Primo Anno non era certo di aver afferrato. Capitava spesso che non afferrasse le parole di Vice.
Decise che la cosa migliore da fare fosse raggiungere gli altri tre e iniziare la preghiera del pomeriggio.
Al termine di questa, mentre Vice e Terzo Anno andarono a raccogliere la legna nel bosco, Capo e i due più giovani prepararono la zona del fuoco, togliendo l’erba e disponendo la piccola sezione orizzontale del bidone di ferro. Al suo interno si sarebbe acceso poi il fuoco.

Capo prese coltello e tagliere, ed iniziò a preparare le salsicce. Era molto abile in questo. Le accarezzava con la lama esattamente al centro, lacerando dolcemente lo strato di budello a protezione della carne.

Secondo Anno, intanto, aveva posizionato il bidone e attendeva solamente l’arrivo della legna. Quest’ultimo non si fece attendere molto. Gli incaricati boscaioli stavano risalendo il sentiero con una caterva di ramoscelli e bastoni di media lunghezza.
Li mollarono sporadicamente a terra, e il rito dell’accensione del fuoco ebbe inizio.
Prepararono una montagnetta centrale di carta, paglia e corteccia.

“Aspetta, manca l’ingrediente segreto” disse Terzo Anno infilando sotto il piccolo cumulo un pugno di resina. Capo a quel punto prese l’acciarino ed esplose una dozzina di scintille verso gli strati di carta.
Ecco che finalmente nacque un cucciolo di fiamme. Una piccola fiamma che cresceva sempre più rapidamente, nutrita dal cibo che gli esploratori le avevano fornito.
A questo punto Vice iniziò a spezzare la legna lunga, e a gettarla noncurante sul piccolo fuoco.

“Cosa fai, attento. Non vedi che gli fai male? Finirai per soffocarlo” sopraggiunse il piccolo Primo Anno.

“Che problemi hai? Cos’è un bambino? Ha per caso i polmoni?” ribatté il Vice.

“Smettila con le tue cagate retoriche” intervenne seccato il Capo.

“Beh…la retorica mica caga” disse sfidante l’altro.

Nessuno rise.

Capo si trattenne da sfigurargli la faccia con il taglierino, e si limitò ad aggiustare il fuoco e a posizionare la grata di ferro.
Mangiarono senza saziarsi.

Al termine della cena si misero ad osservare le stelle. Bianche e nitide stavano sul manto buio. Una moltitudine di stelle lontane e minuscole. Minuscole nella loro immensa grandezza. Piccole come i grilli chiassosi di quella notte tiepida.
Quando si alzarono per andare a dormire, ancora una volta Vice e Primo Anno rimasero soli.
Vice attaccò a parlare.

“Ehi”

“Si?”

“Lo sai perché ultimamente mi tocco la testa?”

“…”

“…”
“…”

“Ehi allora lo vuoi sapere?”

“Si…si lo voglio sapere. Come mai ti tocchi la testa?”

“In realtà non lo faccio da molto…la prima volta è stata in treno. Ero seduto senza fare nulla e cominciai a guardarmi intorno. A un certo punto vidi lo scatolino dell’allarme o di non so cosa. Vidi che in questo scatolino c’era un puntino rosso che appariva e scompariva, appariva e scompariva. Continuamente. Poi, non so il motivo…ma mi trovai a riflettere sul suo menefreghismo nei miei confronti. Sul suo perpetuo lampeggiare…cominciai allora, volontariamente, a resuscitare ricordi negativi, e diventai triste. Ma lui niente. Continuava a lampeggiare. E fu in quel momento che mi venne da toccarmi la testa. Come per verificarne la grandezza e la chiusura. Come per accertare che il contenuto della mia mente non si riversasse all’esterno.” Fece una pausa. “Ed era proprio così. La mia testa era assolutamente chiusa. Poche volte si ha la completa consapevolezza che tutto ciò che pensiamo, riflessioni, preoccupazioni, odio…mette radice qui dentro…” si bussò due volte il cranio “…e che non è dunque prodotto di un’arcana forza oscura che vuole il nostro male. Nossignore, tutto qui dentro. Alla portata di mano.”

Rimasero in silenzio per qualche secondo.

“Capire ciò è stata una sorta di catarsi per me…capisci?”

“Si, credo di aver capito”

“Bene”

Andarono allora entrambi nella tenda.

“Veloci a dormire. No parole e chiudere gli occhi. Domani ci si sveglia presto” disse Capo.

“A che ora?”

“Presto”

Si addormentarono senza problemi. La tenda venne pervasa dalla calma e dal silenzio. I cinque venivano cullati da un vento che si alzava sempre più.

Alle cinque del mattino il sole stava già mettendo la testa fuori, oltre la linea dell’orizzonte. Sembrava che stesse sbirciando il paesaggio montano Stava forse decidendo se sorgere anche quel giorno, o tornarsene a dormire.
Gli alberi, bloccando i primi tenui raggi del mattino, creavano nel sottobosco una atmosfera sottomarina. Tutto era ancora sommerso negli echi notturni.
Sul sentiero stava rampando il pastore con le sue pecore.
Superato il bosco si presentò davanti a lui un sentiero bianco, che tagliava un immenso prato uniforme.
Raggiunse allora un tratto pianeggiante dove il sentiero terminava.
Rammentò allora una vista del giorno prima. Mentre pascolava sulla cima attigua aveva visto una tenda piantata vicino al dirupo. Si ricordò di essersi fermato a riflettere sull’imprudenza di accamparsi in un luogo così rischioso. Così vicino alla morte.

Quella mattina la tenda non c’era più.

L’unica cosa ad incrinare la perfezione naturale di quel luogo era una grande zona dove l’erba era schiacciata. Oltre a ciò, un particolare catturò l’attenzione del pastore: una cosa che pareva essere un cordino bianco.
Il pastore allora portò le pecore al sicuro lontano dallo strapiombo, per poi tornare a contemplare il cordino. Si avvicinò e notò che questo era fissato a terra da un picchetto.
Seguì lentamente la direzione del cordino, nonostante sapesse già dove andasse a finire l’altro capo.
Si avvicinò con cautela al bordo del baratro.
Fu allora che un brivido sinistro nacque dalla colonna vertebrale e si diramò in tutti gli arti.
Possibile che il vento avesse fatto volare giù la tenda con tutte le persone dentro?
Possibile che il peso di quelle giovani anime non sia bastato, insieme all’ancoraggio dei picchetti, a mantenere la tenda attaccata al suolo?

Era possibile?

Il pastore allora spinse lo sguarda giù in basso, ma le uniche cose visibili erano le cime degli alberi in profondità.
Cominciò ad un tratto a tremare. Non sapeva perché quel semplice presentimento l’avesse così destabilizzato. Gli pareva che quella fosse l’unica versione possibile.
Il suo sguardo si annebbiò, e in quella nebbia vide i ricordi della sua infanzia. Quando prima di dormire, giù al villaggio, il viso di sua madre si dorava con la luce della candela, e lei gli sussurrava con voce calda:

“Ora dormi, amore mio, e sogna. Sogna. E credi nei tuoi sogni. Perché solo se credi veramente, potrai alzarti nella notte e volare fin dietro alle stelle, dove vivono i fabbricatori dei sogni. Io non so come siano fatti, non ho mai creduto fino in fondo. Ma te puoi farlo, e se lo farai il tuo corpo per un po’ non peserà più di una piuma.”

Ora capiva. Lui non aveva creduto abbastanza.

Gli esploratori della tenda avranno creduto troppo.

Di Andrea Annibaletti

Amante del cervello e dei film labirintici. In quanto a scrittura, Baricco una spanna sopra gli altri. Provo a scrivere poesie.

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