La recrudescenza del conflitto israelo-palestinese ha determinato turbamenti negli equilibri diplomatici internazionali che stanno risultando molto scottanti. All’orizzonte si intravede un allargamento del conflitto. Vediamo i rischi.

di Lanfredi Omar

Il mondo è stato scosso dal cruento ed improvviso attacco del 7 ottobre che Hamas ha perpetrato nei confronti dello Stato di Israele. Nonostante questo atroce atto di guerra abbia soltanto risvegliato un conflitto che da decadi miete vittime e viola diritti umani, agli occhi del mondo è parso quasi un qualcosa di nuovo. È indubbio in effetti che qualcosa è cambiato.Come sempre ha funzionato nel Vicino Oriente, le grandi potenze impicciano il naso anche nei più piccoli conflitti.

Non a caso gli Stati Uniti hanno destato un certo scalpore disponendo una flotta di due portaerei, un sottomarino armato e una dozzina di altre unità nel Mediterraneo, con tanto di post sui social. La mossa viene interpretata come un messaggio di deterrenza inviato agli avversari della Regione. Il New York Times scrive infatti che la recente visita in Iraq del segretario di Stato americano Antony Blinken è stata l’occasione per mettere in guardia l’Iran dall’attaccare le truppe o gli interessi statunitensi nel Medioriente. “Un messaggio chiaro a chiunque” dice Blinken stesso.

Ma mentre l’amministrazione Biden dichiara di voler evitare che la guerra tra Israele e Hamas degeneri in un conflitto più ampio, si schiera apertamente a favore di Israele, dimostrando che la direzione in cui si sta andando è proprio opposta. Le minacce più forti arrivano dall’altro asse, quello islamista, antisionista e in aperta inimicizia con l’Occidente, del quale la potenza maggiore è la Repubblica Islamica dell’Iran. Breve parentesi: l’Iran è da tempo un sorvegliato speciale da USA ed Europa per la sanguinosa repressione che sta attuando nei confronti dei manifestanti, in particolare le donne, che inveiscono contro la polizia morale e da tempo invocano libertà civili e giustizia per le giovanissime vittime del regime, definite “martiri”.

L’Iran – che sostiene Hamas e altre organizzazioni militanti nella Regione, tra cui Hezbollah e la Jihad islamica palestinese – ha dichiarato in precedenza di considerare gli Stati Uniti “militarmente coinvolti” nella guerra. Addirittura il Ministro della difesa iraniano ha spiegato che gli Americani verrebbero “colpiti duramente” se non dovessero ottenere un cessate il fuoco a Gaza. Parole pesanti quando dette dai vertici di un regime che rappresenta la potenza islamica militare e nuclearizzata del Medio Oriente.

Nel frattempo siamo stati giorni col fiato sospeso ad attendere il discorso di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah. Probabilmente avrete già sentito questo nome negli ultimi giorni. Hezbollah, o “Partito di Dio”, è nato in Libano come organizzazione armata islamista (e antisionista), poi estesasi anche a partito politico. Nasrallah ha parlato per la prima volta dall’attacco di Hamas: “Abbiamo gli strumenti per difenderci anche dalle navi americane. Ma abbiamo ancora bisogno di tempo per infliggere il colpo finale». Anche qui, nulla di buono da presagire.

Un’estensione del conflitto già in atto sarebbe disastroso.Israele, sin da quando si è formato come entità statale nel 1948, ha dovuto fronteggiare una schiera di paesi limitrofi a maggioranza musulmana intolleranti nei confronti della sua stessa esistenza. La situazione è assurta ad una maggiore tensione con la rivoluzione khomeinista in Iran e l’avanzare di movimenti islamisti a cavallo tra gli ultimi decenni del Novecento e i primi del Duemila.

Contemporaneamente le scelte di Israele in questi lunghi decenni di conflitti non hanno fatto altro che peggiorare i rapporti con alcuni paesi arabi della zona. L’occupazione – continuata in questi decenni – del 78% dei territori assegnati dall’ONU ai Palestinesi, l’isolamento di Gaza tramite il muro e le azioni criticate dai filopalestinesi, aumentate da quando Netanyahu è stato nuovamente rieletto Primo ministro israeliano, sostenuto dalle destre religiose ed oltranziste, hanno contribuito all’esasperazione e al conflitto a cui stiamo tutti assistendo.

La terra di Sion è una terra di odi etnici e religiosi radicati.

Nuove minacce si pongono dinnanzi agli Israeliani, quindi ineluttabilmente anche a noi che siamo tutti legati indirettamente alla guerra. La tangibilità delle vicine guerre nelle nostre vite l’abbiamo constatata già con il conflitto (ancora in atto) nel Donbass. Abbiamo visto come gli equilibri geopolitici influenzino gli equilibri economici. Per esempio idrocarburi, alimentari e altri beni vanno a gravare in maniera incontrollata sulle tasche delle famiglie.

Nella speranza che non ci sia alcun ulteriore coinvolgimento nella guerra israelo-palestinese degli altri Paesi della Regione, nella speranza che le famiglie sotto le macerie di Gaza possano un giorno vedere la luce della pace e della convivenza pacifica tra etnie, noi rimaniamo osservatori impotenti di un mondo che brucia e crolla e di guerre che sembrano non avere una fine.

12 commenti a “QUIETA NON MOVERE ET MOTA QUIETARE”
  1. Ottima analisi.
    Sicuramente siamo sempre più osservatori, ma siamo davvero anche del tutto impotenti?

  2. Salve Omar Lanfredi, ho apprezzato molto La sua analisi riguardo alla situazione critica in Medio Oriente, ottimo lavoro continui così.

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