Donne violate, uomini sterminati: la doppia ferita di Srebrenica.

Di Serena Scalari

A Srebrenica il silenzio pesa ancora come una colpa collettiva. Non è solo il silenzio dei boschi che circondano la città, né quello delle tombe bianche che si allineano come un rosario di nomi interrotti. È il silenzio di un Paese che, a trent’anni dal genocidio, non ha ancora trovato un’unica voce per raccontare ciò che è accaduto.

La Bosnia-Erzegovina resta divisa anche dove dovrebbe essere più unita: nelle scuole, nei libri, nella memoria dei bambini.

In molte città esistono ancora le cosiddette “due scuole sotto lo stesso tetto”: un unico edificio, due ingressi separati.                                                                                                                                         Gli studenti condividono i corridoi ma non le lezioni, vengono divisi in base all’appartenenza nazionale e seguono programmi di storia differenti.

Questa proposta fu ideata dalla Bosnia Erzegovina per incoraggiare il rientro delle persone rifugiate e sfollate a causa del conflitto, ma questa soluzione temporanea è alla fine diventata permanente. Un segnale di una ferita che non è stata risolta e che è ancora presente nella memoria collettiva.

Una memoria che non riesce a diventare davvero condivisa, come dimostra il bisogno di mantenere due visioni storiche separate anche nella crescita dei ragazzi appartenenti a comunità diverse.

Per alcuni, Srebrenica è un genocidio riconosciuto dalla giustizia internazionale; per altri, un episodio ridimensionato, reinterpretato, talvolta negato. Così la violenza del 1995 continua a vivere nel presente, insinuandosi tra le righe dei programmi scolastici e modellando identità che crescono già divise.

Bisogna ricordare che l’episodio di Srebrenica non è sempre stato definito un genocidio. Il genocidio di Srebrenica è stato riconosciuto come tale dalla Corte Penale Internazionale solo nel 2007, dopo anni di esitazioni e resistenze politiche. Per molto tempo, infatti, alcuni leader e istituzioni coinvolte nel conflitto hanno negato o minimizzato le responsabilità, rendendo difficile un riconoscimento immediato e unanime. Ma il ritardo nel definirlo genocidio non ne riduce la gravità.

Proprio dalla definizione di genocidio, stabilita dal dizionario Treccani, troviamo le motivazioni della duplice ferita ancora viva nell’anima della popolazione.

Genocìdio: Grave crimine, di cui possono rendersi colpevoli singoli individui oppure organismi statali, consistente nella metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui, la dissociazione e dispersione dei gruppi familiari, l’imposizione della sterilizzazione e della prevenzione delle nascite, lo scardinamento di tutte le istituzioni sociali, politiche, religiose, culturali, la distruzione di monumenti storici e di documenti d’archivio, ecc.   

Nel caso di Srebrenica, l’obiettivo era chiaro: eliminare la comunità bosniaco-musulmana in quanto tale, colpendola nella sua identità religiosa e culturale. Per questo gli uomini furono sistematicamente sterminati e le donne furono violate: due strategie diverse, ma entrambe mirate alla cancellazione di un intero gruppo etnico. E questo ha portato alla trasformazione di una città da centro turistico commerciale ad una città vuota, ormai luogo di memoria e riflessione, in particolare per la comunità musulmana che era e resta una parte importante della comunità bosniaca.

La ferita delle donne: il corpo come campo di battaglia

A Srebrenica la violenza contro le donne non fu un effetto collaterale della guerra, ma una strategia deliberata. Le forze serbo-bosniache usarono lo stupro come arma: un modo per spezzare la dignità delle donne, distruggere il tessuto sociale, colpire la comunità nel suo nucleo più intimo. Molte furono sequestrate, abusate, costrette a subire violenze davanti ai familiari. Altre furono risparmiate fisicamente, ma condannate a un dolore che non ha mai smesso di lavorare in silenzio.

La ferita non è solo psicologica: è sociale, identitaria. Molte sopravvissute hanno taciuto per anni, schiacciate dalla vergogna, dal timore di non essere credute, dal rischio di essere stigmatizzate. Il silenzio imposto e il silenzio scelto sono diventati due forme di sopravvivenza. E ancora oggi, in molte comunità, la violenza subita dalle donne resta un capitolo scomodo, poco raccontato, quasi rimosso.

La ferita degli uomini: lo sterminio come cancellazione

Se il corpo delle donne fu violato per spezzare la continuità della comunità, il corpo degli uomini fu eliminato per cancellarla del tutto. Tra l’11 e il 16 luglio 1995, più di ottomila uomini e ragazzi bosniaci musulmani furono separati dalle famiglie, deportati e giustiziati. Avevano tra i tredici e i settant’anni. Non erano soldati: erano padri, figli, studenti, contadini, insegnanti. La loro eliminazione sistematica rispondeva a una logica precisa: togliere alla comunità la sua componente maschile significava impedirne la sopravvivenza.

Molti corpi furono gettati in fosse comuni, poi riesumati e dispersi in fosse secondarie per rendere più difficile l’identificazione. Ancora oggi, ogni anno, nuovi resti vengono ritrovati e ricomposti. Le madri e le mogli di Srebrenica continuano a seppellire i loro uomini a distanza di decenni, in un lutto che non finisce mai.

Ricordare Srebrenica significa guardare in faccia questa doppia ferita: quella inflitta agli uomini, sterminati per cancellare un popolo e quella inflitta alle donne, violate per spezzarne la dignità e la continuità.

E significa riconoscere che la violenza non si è fermata con la fine della guerra. Oggi sopravvive nelle narrazioni contrapposte, nei programmi scolastici divergenti, nei bambini che crescono imparando due verità diverse. La memoria è diventata un nuovo campo di battaglia: non più i corpi, ma le parole, i libri, le lezioni.

Ricordare Srebrenica significa non accettare mai più che il corpo diventi campo di battaglia della violenza. Significa rifiutare che la cultura, la storia e la verità possano essere manipolate fino a diventare armi. Significa scegliere, ogni giorno, di non lasciare che il silenzio copra ciò che è stato.

Di Serena Scalari

Estroversa solo con le persone giuste, amante della musica e del fantasy, fermamente convinta che le piccole cose facciano la differenza, senza mai dare nulla per scontato.

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