In occasione della Settimana della legalità abbiamo avuto l’opportunità e il privilegio di intervistare Andrea Pongiluppi, avvocato penalista coinvolto nel Processo Pesci, il più importante processo di mafia che ha coinvolto il nostro territorio.

di Pietro Casari

Buongiorno Avvocato, si vuole presentare ai nostri lettori?

“Buongiorno, sono Andrea Pongiluppi, sono di Porto Mantovano e la mia professione è quello di avvocato penalista. Seguo processi di questo genere non solo nel nostro territorio ma anche in tutto il paese. Uno degli aspetti che caratterizza la mia professione è quello di avere una visione, anche se non a 360°, di quello che accade in ambito giudiziario un po’ in tutta Italia”.

Ci vuole spiegare il processo Pesci e quale ruolo Lei ha avuto?

“Il processo Pesci è un processo celebrato nel tribunale di Mantova che ha avuto inizio nel 2016 e si è concluso recentemente. Il processo nasce da un’indagine del 2011 che coinvolge la direzione nazionale antimafia. È un’operazione trigemina rispetto a due altre operazioni, Aemilia (Reggio Emilia, RE) e Kyterion (Cutro, KR). Il processo riguarda le condotte di un ‘ndrina (cosca di carattere mafioso ndr.) proveniente da Cutro. Il processo Pesci è l’ultima parte di processo che deriva da queste inchieste per ipotesi di associazioni di stampo mafioso e reati di carattere estorsivo verso imprenditori del campo edilizio. Nel processo personalmente seguivo tre assistiti, artigiani assolti perché in realtà la corte ha constatato che si trattava di comportamenti leciti sotto il profilo penale, pur tuttavia intersecati con ambiti che invece sono stati ritenuti penalmente rilevanti per altri soggetti.”

Perché spesso l’infiltrazione è nell’edilizia e cosa ha favorito l’infiltrazione nel nostro territorio?

“L’edilizia dal punto di vista storico è uno di quegli ambiti professionali meno normati e tutelati, anche sotto il profilo fiscale. I controlli, rispetto ad altri settori, sono inferiori. Pesci si occupa di fatti accaduti tra il 2011 e il 2012. In quegli anni uscivamo dalla crisi edilizia iniziata nel nostro paese nel 2008/2009, una crisi che ha agevolato l’infiltrazione mafiosa nelle aziende in difficoltà economica attraverso l’influenza indebita e in qualche caso minacciosa, al fine di utilizzare queste aziende come metodo di riciclaggio (anche se non è il caso di Pesci) o di spolpare queste stesse aziende.

Determinati soggetti, avendo disponibilità di capitali, sono stati molto più abili sia delle agenzie governative che degli istituti bancari a prestare fondi. Quando si creano certe condizioni di crisi, il passaggio può essere molto scivoloso.”

Che bilancio ci può dare rispetto alla presenza nel territorio mantovano del fenomeno mafioso?

“Il problema fondamentale è distinguere fra atteggiamenti leciti, che si svolgono in contesti più a rischio, e atteggiamenti illeciti di criminalità comune, che spesso, pur essendo gravi, non hanno a che fare con il fenomeno mafioso. Ci sono poi fenomeni invece tipicamente legati al fenomeno mafioso. Queste sono distinzioni difficili da operare anche per gli addetti ai lavori. Nel contesto penalistico si parla di infiltrazione come di capacità di influenzare il sistema economico-sociale da parte di persone che certamente appartengono a cosche o associazioni di stampo mafioso. Soggetti di questo tipo sono stati arrestati nel 2015 (nel nostro territorio ndr.) con pene piuttosto elevate, quindi escludo che ora possano ancora controllare il contesto mantovano. Che ci siano in essere altre situazioni possiamo assumerlo, anche se non sono in grado di dirlo. Di sicuro tentativi di questo tipo sono favoriti da situazioni di crisi.”

Crede che lo stato, tramite le pene utilizzate, stia operando nella giusta direzione?

“Credo che le modalità che lo stato attualmente utilizza non siano sufficienti. Da un punto di vista sociologico non si possono ignorare che le cause del fenomeno mafioso sono radicate sia in contesti economici sia culturali ormai da tempo. E anche se una società ha sviluppato degli anticorpi di legalità, questi non bastano in situazioni di gravi crisi dove manca l’aiuto degli organi preposti. La presenza dello stato in quelle zone in cui il fenomeno è favorito va ribadita con maggiore forza, anziché criminalizzare il territorio. Punire senza creare un contesto sociale più solido non porta al successo. Parlando di sanzioni, nel nostro paese si parla di doppio binario. Ciò significa che esistono sanzioni maggiormente restrittive per quelli di stampo mafioso rispetto a reati comuni, come per esempio l’ergastolo ostativo. Questo prevede un trattamento diverso, per cui un soggetto non ha diritto mai (a meno che collabori con la giustizia) a libertà anche basiche. Bisogna chiedersi cosa sia più efficace, se una sanzione più dura o invece un percorso di rieducazione. C’è chi è meno convinto della sua natura mafiosa e in carcere rischia di essere trascinato dentro. È noto come in Puglia, in carceri dove erano presenti soggetti mafiosi, si è verificato un vasto fenomeno di associazionismo mafioso. Quel che penso è che in questo campo sia necessario distinguere le situazioni in base al soggetto condannato. La confisca di beni è un provvedimento che può essere molto grave per chi lo subisce e che ricade sulle famiglie che non hanno appartenenza o non hanno commesso reati specifici. In 9 casi su 10 l’ablazione del patrimonio è quasi totale, quindi famigliari e figli si ritrovano spesso automaticamente in situazioni di indigenza. Dire se questa situazione possa essere in qualche modo efficace per recuperare queste persone alla legalità diventa problematico. In questi casi bisognerebbe mettere sul piatto della bilancia sanzione e rieducazione, non solo del soggetto indagato ma anche di chi gli sta intorno. Un altro aspetto è quello delle cosiddette interdittive antimafia, anche dette white list. Laddove c’è un’impresa rispetto alla quale si può presentare un rischio di infiltrazione mafiosa, l’interdittiva antimafia esclude l’impresa o l’imprenditore dalla lista di imprese considerate sane e che quindi possono partecipare ad appalti di carattere pubblico. Ed è vero però che non è necessario dimostrare appartenenza ad un ambito mafioso ma basta che si possa presumere una vicinanza di questo tipo. Così in Emilia quasi tutti gli imprenditori di origine calabrese del territorio si sono visti arrivare almeno la proposta di esclusione dalla white list. A volte questo clima di sospetto può portare a situazione sgradevoli. Nessuno nega che il fenomeno non esista, si tratta di valutare bene ogni singola situazione. Se io criminalizzo una parte di territorio o gruppo sociale, questi si sentono reietti e si chiudono al tema della legalità e al rispetto delle regole sociali condivise. Si vanno a creare due piani e pericolose fratture sociali.”

Spesso debellare il fenomeno mafioso sembra un’utopia. Qual è la sua visione?

“Debellare il fenomeno mafioso è qualcosa per cui tanti hanno perso la vita, personaggi eroici spesso non sostenuti da chi avrebbe dovuto farlo. La criminalità mafiosa ha imparato da una stagione terribile che le morti, gli omicidi, le guerre non rafforzano la leadership mafiosa in determinati territori. Il punto è che esiste sempre una casa base, esiste una radice di alcuni ambiti mafiosi che è talmente forte in determinati contesti territoriale e sociali che, anche tagliandone i rami, non si riesce ad estirpare. Il problema oggi è la mafia di provenienza calabrese, l’Ndrangheta. La Calabria è stata una delle zone d’Italia dimenticata da tutti, dove non si è agito adeguatamente nell’ultimo quarto di secolo e questo gap avrà bisogno di tempo per essere recuperato. La presenza statuale deve essere affermata con forza e ci deve essere la volontà di costruire un circolo virtuoso favorevole. Rispetto a comportamenti che vanno repressi, la regola deve essere ferma, senza mai agire però stigmatizzando territori o contesti. Questo credo sia fondamentale. Io ritengo che la mafia come fenomeno storico si possa debellare, come abbiamo visto debellare il fenomeno mafioso in Sicilia, dove rispetto al ’92 la situazione è completamente diversa. Si parlava al tempo di mafia al pari dello stato. Ora a livello nazionale, Cosa Nostra non è più un problema. Non è utopico sconfiggere la mafia. Questo non vuol dire che poi la criminalità organizzata sarà eliminata per sempre. Il rischio è che alcuni soggetti che sono in grado di imporre una forte leadership possono supplire alle carenze strutturali, diventando una nuova autorità pubblica. Va compreso questo concetto per essere pronti ad affrontare il fenomeno. Io credo che la prima arma sia l’integrazione. Questo non significa escludere la repressione, ma allo stesso tempo non bisogna mai pensare che questa sia l’unica via.”

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