di Francesca Manzelli
– È proprio vero: anche se tutto cambia nella vita, sotto sotto ogni cosa rimane la stessa –
Ridevamo spensierate quella sera. Ci eravamo riunite a cena, per rievocare i tanti momenti trascorsi insieme. Parevano passati secoli invece che una decina d’anni e tutto, visto da fuori, era diverso. Ognuna di noi si era fatta una vita, trovando un lavoro e formandosi una famiglia, ma ci erano bastate quelle poche ore per ritrovarci affini come lo eravamo un tempo.
La serata era iniziata alquanto formale, ma il calore del caminetto acceso e delle risate tra anime simili aveva fatto sciogliere i muri creati dalla distanza. Ci ritrovammo stese come quindicenni sul divano, una sopra l’altra quasi, in atteggiamento del tutto intimo e confidenziale. A turno raccontavamo eventi e commentavamo le storie l’una dell’altra, proprio come quando studiavamo marketing e ci lasciavamo andare ai pettegolezzi sui professori e sui ragazzi che ci smuovevano i più intimi desideri.
Giunta ormai l’ora di salutarci, ci ripromettemmo di vederci più spesso. Si sa, tornare ragazzi quando ragazzi non si è più fa provare quel brivido di libertà ribelle, solitamente soffocato fino a spegnersi dalle responsabilità della vita adulta. Purtroppo il mese di marzo obbligava a rincasare presto, il buio occupava gran parte della giornata e già alle nove, come quella sera, spargeva le sue ombre su ogni cosa. Tuttavia era doveroso ammettere che Londra di notte fosse affascinante. Il bagliore dei lampioni riluceva sulla strada perennemente bagnata. Il fatto che fosse artificiale, però, lo rendeva simile più ad una lampadina riflessa sulla ceramica che al sole splendente sul mare. Mi trovai a pensare che il difetto nascosto in quella notte fossero proprio le caratteristiche nuvole della città. Il cielo pareva infatti scuro e piatto anziché stellato e profondo e ciò era un peccato. Ammirare la luna era così complicato a Londra…
– Ciao Amore – squittii al trillo insistente del telefono, che mi distraeva dai pensieri sugli astri celesti e mi riportava al dolce compagno che la mattina successiva mi avrebbe svegliata con un bacio, tornando dal turno di notte al lavoro – Sto benissimo, non ti preoccupare – risposi con voce morbida, rassicurandolo dai timori che aveva nel lasciarmi tornare a casa sola. Era già capitato, naturalmente, ma lui rimaneva sempre diffidente nei confronti di ciò che la notte poteva offrire su un piatto d’argento.
Trascorsi diversi minuti dialogando con lui, che, sebbene sommerso dal lavoro, tentava di tenermi compagnia. Dopo un po’ però dovette andare.
– Scrivimi quando arrivi a casa, anche se non posso guardare il telefono. Domattina ho una sorpresa per te – lo sentii sogghignare – Buonanotte, ti amo –
– Ti amo anch’io, ‘notte – mormorai, chiudendo la chiamata.
Ero a buon punto del cammino ma il freddo iniziava a farsi sentire anche attraverso la giacca e i pesanti pantaloni della tuta, in fondo era ancora inverno. I miei pensieri si concentrarono sul lavoro dell’indomani: mi era venuta l’illuminazione giusta per impressionare il capo.
Mi strinsi sorridendo nel giaccone, guardando distrattamente l’ora… 21:28. Di nuovo mi persi tra i meandri della mia mente, come spesso mi succedeva, barcollando tra ricordi, progetti e idee filosofiche. Simile a quando, sotto la doccia, mi rilassavo col caldo getto dell’acqua: come le gocce scorrevano libere sulla pelle nuda, così i pensieri andavano a piede libero, rincorrendosi senza capo né coda.
Accanto a me o sull’altro lato della strada ogni tanto passava qualcuno. Una coppia che bisticciava, dei ragazzi che pedalavano in bicicletta, ma quell’uomo lo notai per l’uniforme. Era abbastanza alto, con le spalle larghe e il distintivo della polizia.
Fin da bambina i miei genitori mi avevano insegnato a salutare rispettosamente i poliziotti, così come chiunque altro che servisse lo stato. Passandogli a non più di un metro di distanza sul marciapiede scuro, quella sera dunque lo salutai. Un innocente “buonasera”, a testa china, per rispetto. Lui non rispose. Pensai che non mi avesse udita… non era così. Sentii dei passi dietro di me, mi voltai e l’unica cosa che ebbi il tempo di vedere furono le sue nocche contro il mio viso. Il pugno mi fece perdere i sensi non prima di permettermi di liberare, insieme al respiro, un urlo strozzato.
Colpendola in viso vidi i suoi meravigliosi occhi grigi pieni di terrore. Chissà quali altre meraviglie celava, sotto tutti quegli strati di vestiti… presto lo avrei scoperto da solo. Quella voce così femminile, quel saluto così voglioso, quella camminata sensuale… tutto di lei mi aveva provocato. In strada da sola di notte, che donna audace!
Immediatamente frugai nelle sue tasche e buttai il cellulare. La trasportai, leggera com’era, sui sedili posteriori della mia macchina. Presi per scrupolo anche la corda che tenevo nel bagagliaio per le gite in montagna e le legai mani e piedi: non sapevo quando si sarebbe svegliata e volevo assolutamente evitare intoppi. Stavo morendo dalla voglia di esplorarla. Mai nessuna prima mi aveva fatto questo effetto. Certo, ne avevo incontrate di belle donne, ma lei era al di sopra, le era bastato un solo saluto per scatenare l’uomo che in me viveva. I suoi capelli biondi erano stati una calamita istantanea. Quelle labbra sottili e invitanti, ora macchiate del suo stesso sangue, mi invogliavano ancor di più… le cose che avrebbe potuto farci… Non resistetti e le infilai una mano sotto la maglia. Non mi piaceva che fosse incosciente, ma era così provocante anche in quella tuta larga che controllarmi non era possibile. Palpai sotto ai vestiti, fantasticando il piacere nei suoi occhi. Ero quasi certo che una volta sveglia le sarebbe piaciuto, visto come mi aveva provocato.
Mi resi conto che il rischio di essere visti da qualche passante era troppo alto. Il motore prese vita e distrattamente guidai verso casa, continuando a fantasticare sul suo corpo nudo e controllandola spesso dallo specchietto. Incrociai il mio stesso sguardo, acceso dalla bramosia. Con una nota maligna nelle iridi, immaginai gli scenari migliori delle sue reazioni, dall’eccitante paura alla desiderosa accettazione. Chissà come sarebbe stata…
All’arrivo a casa lei non era ancora rinvenuta. Dovetti trasportarla in braccio. Ne approfittai per sentire le sue forme e respirare il suo profumo, che di lì a poco si sarebbe inesorabilmente mischiato col mio. Salii le scale e la depositai in uno sgabuzzino dismesso, portandole un secchio, dell’acqua e un cuscino.
La guardai un’ultima volta prima di chiudere a chiave la porta, dirigendomi a fare una doccia in attesa del suo risveglio.
Quando ripresi conoscenza impiegai un paio di minuti buoni a comprendere la situazione in cui mi trovavo. Sentivo mani e piedi legati da una corda resistente e il viso mi doleva nel punto in cui il pugno del poliziotto aveva colliso con la mia pelle. Calmai il respiro e passai le dita su quel lato della faccia, scoprendo un leggero gonfiore e del sangue incrostato vicino alla bocca. Tutto sommato però le mie condizioni mi sembravano buone, avvertivo solo un intorpidimento generale. Cercai nelle tasche il telefono ma, come sospettavo, non lo avevo più.
Nelle mie narici si faceva strada un pungente odore di detersivo. Analizzai l’effettiva grandezza del locale: non più di un metro e mezzo per due. C’era buio, ma da sotto la porta filtrava della luce artificiale, che mi permetteva di scorgere delle sagome. Intravidi un secchio, una bottiglia e qualcosa dai contorni smussati che inquadrai come cuscino. Niente scaffali, quindi doveva essere dismesso. Niente finestre. C’era un basso rumore di sottofondo e un fischiettio allegro, che immaginavo appartenesse al mio rapitore.
Nel metabolizzare quella parola mi permisi di provare paura, ma chiusi subito le porte alle emozioni, sentendo interrompersi il rumore ovattato. Mettermi a strillare non sembrava una buona idea: avevo visto la divisa e il distintivo, quindi quell’uomo non era stupido. Mi aveva sicuramente portata in un posto isolato. A meno che non si trattasse di una copertura, ma di correre il rischio non se ne parlava. Dovevo solo cercare di inquadrarlo, di farmi fare meno male possibile e sembrare accondiscendente qualunque fossero le sue richieste. Volevo rimanere viva Tentai di figurarmi il suo volto, per poter andare alla polizia con un identikit, ma fui sopraffatta dall’ansia quando mi resi conto che non me lo ricordavo. Non lo avevo nemmeno guardato in faccia e di sicuro dire “un uomo in divisa abbastanza alto mi ha rapita” non suonava convincente. Non sarei riuscita a riconoscerlo una volta libera. Questo era un grande problema.
Si sentirono dei passi fuori dalla porta, ma scomparvero in lontananza. Restai persa nei miei pensieri per un tempo che non fui capace di quantificare. Per quanto cercassi di non cadere nello sconforto, nel profondo sapevo di essere terrorizzata. Mi calmavo pensando al mio compagno, sforzandomi di credere che avrei risentito il suo “ti amo” di nuovo dal vivo. No, io sarei uscita da quel posto indenne e prima o poi lo avrei sposato, avremmo avuto due bellissimi bambini, un cane e un criceto. Sarei tornata al mio lavoro e avrei avuto una promozione. La situazione in cui mi trovavo in quel momento era solo un orribile imprevisto, che avrei risolto.
Tornai alla realtà sentendo nuovamente dei passi, che si fermarono in corrispondenza della mia porta. La chiave fu inserita nella serratura, un giro, la maniglia si abbassò. Ed eccolo di fronte a me, illuminato da dietro, irriconoscibile se non per la sagoma imponente. Mentre mi strofinavo gli occhi ormai abituati al buio, lo sentii ridere malignamente.
– Eccoti qui, finalmente sveglia – la sua voce era ruvida come carta vetrata e bassa come il gorgoglio di un mulinello.
– Che fai? Non dici niente? – di fronte al mio silenzio rise di nuovo.
– Ragazzina, non mordo mica… beh se vuoi posso fare anche quello, basta che tu mi dica cosa ti piace – disse con un tono viscido che mi fece temere il peggio. Mi parve aggiungere un occhiolino e provai un ribrezzo immediato.
– Mi chiamo Sarah – iniziai a dire con non so quale coraggio.
– Dolcezza, non mi interessa come ti chiami, ora andiamo –.
Si abbassò e mi legò una benda sugli occhi, poi prese il nodo della corda che mi legava le mani e lo tirò. Mi alzai andandogli dietro alla cieca. Dopo una ventina di piccoli passi, quelli che mi consentiva la corda ai piedi, sentii la sua presa allentarsi e il rumore di una serratura alle mie spalle. Armeggiò con il nodo delle mani, evidentemente allargandolo per darmi più agio. Il suo respiro era pesante e rumoroso.
– Spogliati – ordinò, ma vedendo che non mi muovevo aggiunse – Anzi lo faccio io –.
Sentii un cassetto aprirsi. Mi si avvicinò nuovamente, facendomi a brandelli i vestiti con le forbici. Mentre lo faceva toccava ovunque potesse toccare, ma sempre in modo delicato, come fossi stata in grado di rompermi alla minima pressione. Sentivo il fiato corto della paura. Mi condusse su quel che immaginavo fosse un letto. Il materasso era morbido, ma il suo legarmi mani e piedi al letto mi pietrificò. Scelsi di non dimenarmi: non volevo provocarlo, mi avrebbe fatto solo più male. Sapevo cosa stava per succedere, ma non me ne resi conto fino a che non mi tolse la benda dagli occhi. La luce non mi penetrò nelle pupille come avrei immaginato, poiché accesa vi era soltanto una debole lampada. Questo mi permise di vederlo in faccia e lì iniziai a provare paura veramente.
Non si era coperto il viso e mi aveva permesso di vedere. Ciò poteva significare due cose: o si considerava intoccabile dalla polizia o mi credeva tanto stupida da non denunciarlo. Evitai di pensare alla ben più tragica terza ipotesi: non sarei sopravvissuta per poterlo denunciare.
Quello di fronte a me, con gli occhi chiari resi cupi dalla sete di piacere, non era un uomo. Era una bestia. Lo fissai meglio che potei, per imprimerlo bene nella memoria. Un giorno avrei pregato di dimenticarlo, ma ora mi serviva averlo ben presente per cercare giustizia una volta libera. Aveva un orecchio a sventola, messo in risalto dalla totale mancanza di capelli. La barba rossa sbiadita e le sopracciglia quasi bianche, in aggiunta alle rughe sotto agli occhi, facevano pensare ad un uomo di non meno di cinquant’anni.
– Ragazzina, non ti vedo particolarmente impaurita… ti piace, non è così? Lo sapevo che mi stavi provocando – asserì ghignando e abbassandosi i pantaloni.
La verità era che stavo nascondendo bene il mio terrore. Mi si avvicinò e nell’istante in cui iniziò la penetrazione, la mia mente si svuotò. I miei occhi erano colmi di pungenti lacrime. Mi concentravo su tutto, fuorché sui suoni animaleschi che fuoriuscivano dalla sua bocca, le sue mani avide e il rapporto che solo lui stava consumando. Aveva smesso di essere delicato.
Fissavo le pareti della stanza, bianche, senza oggetti intorno. La stanza era vuota, vi era solo il letto che mi rifiutavo di guardare. Così chiusi gli occhi e cercai di cullarmi nel ricordo della morbida voce dell’uomo che amavo, così profonda e nettamente contrastante con quella della bestia.
Lui aveva iniziato a parlare, pronunciando le frasi più riprovevoli che avessi mai ascoltato. Dopo un tempo che mi parve infinito, l’incubo giunse al termine.
– Allora ragazzina? È stato bello, vero? – chiese arrogante, con un sorrisetto appagato dipinto in volto.
– Mi chiamo Sarah – Tra tutto ciò che potevo dire, la voce rotta fece uscire solo queste parole per la seconda volta.
– Non mi sembra di averti chiesto come ti chiami, ragazzina. Ora rispondi alla domanda. – io però non trovai la forza di rispondere.
– Ah, così non vuoi parlare, eh? Te la faccio venire io la voglia di parlare – .
Mi strattonò violentemente fuori dalla stanza, slegandomi dal letto e legandomi stretta da far male. Mi spinse dentro allo sgabuzzino facendomi cadere.
Non si fece più vedere per un po’. Dovetti usare il secchio e anche la sete si faceva sentire. Nuda com’ero, sentivo un gran freddo a contatto col pavimento gelido, ma la stanchezza alla fine ebbe comunque la meglio. Mi lasciai andare al pianto e con le dita tastai i punti che mi dolevano. Rinunciai ad esaminare il dolore fisico e mi addormentai tra le lacrime.
Mi svegliai avvertendo dei passi e subito mi piegai su me stessa per la morsa allo stomaco della fame ma soprattutto per gli evidenti danni che la bestia mi aveva causato. Mi sentivo totalmente staccata dal mio corpo, come se dopo l’abuso non fosse stato più mio. Non facevo che chiedermi perché? Perché ero in quella situazione? Perché proprio io? Perché al mondo esisteva una persona come lui?
Allo stesso tempo, mi domandavo cosa sarebbe successo. Mi avrebbe lasciata andare? Mi avrebbe tenuta prigioniera qui come giocattolo sessuale? Si sarebbe sbarazzato di me una volta usata? Ormai faticavo a controllare le emozioni, a tenere alto quel muro difensivo. Piangevo senza accorgermene e mi ritrovai con le guance rigate. Per terra c’era del sangue secco, cosa che mi fece preoccupare per la mia salute. La speranza di uscirne si era ridotta, ma benché piccola, ancora mi abbandonava. I miei cari si sarebbero accorti della mia assenza, mi avrebbero cercata e prima o poi mi avrebbero trovata. Pregai lo facessero in tempo.
La porta si spalancò e la luce si accese violenta. La bestia mi guardò con sufficienza e prese a parlare biascicando le parole.
– Ieri quando mi hai provocato eri più bella, dolcezza. Cioè sei comunque passabile, però avresti dovuto dirlo che saresti stata così brutta dopo esserci divertiti… Ah giusto, avevamo una domanda in sospeso noi due –.
Si avvicinò pericolosamente, divaricandomi le gambe con un ginocchio. Iniziò a toccare e io chiusi gli occhi, in vista di un’altra tortura.
– Apri gli occhi! – strillò, scuotendomi per le spalle. Lo accontentai.
– Ora rispondi: sono bravo a letto, eh? – non risposi.
– Ragazzina rispondi – disse alzando nuovamente la voce.
Un ringhio mi scosse da dentro, cercai di divincolarmi e urlai: – Il mio nome… è… Sarah – tirando fuori tutta la disperazione che avevo accumulato.
Lui rimase in silenzio, furente per qualche secondo, poi nei suoi occhi vidi solo la follia. Mi sbatté a terra la testa e con le mani sul collo iniziò a stringere forte il mio collo, sempre più forte, mozzandomi il respiro.
– Tutto qui quello che hai da dire? Davvero? – parlò a scatti per lo sforzo.
La vista iniziò ad offuscarsi e mi sentii morire. Tutto ciò per cui avevo combattuto nella mia vita mi stava scivolando via. L’amore che provavo si trasformò nel nulla: le sfide, lo studio, il sudore, i sogni… niente aveva più importanza. Tutti i progetti si distrussero come si distrugge un bosco dopo un incendio. In pochissimo tempo la vita svanì tra le mani della bestia. Non potevo accettarlo, ma il mio ultimo respiro mi diede il tempo di rendermi conto che era la fine.
Mi spensi, come una candela a cui viene spenta la fiamma per sempre prima che finisca la cera.
POSTFAZIONE:
Il caso che ho descritto è quello di Sarah Everard, rapita, stuprata e uccisa da Wayne Couzens. Una prima udienza ha avuto luogo lo scorso 9 luglio, mentre il processo è iniziato il 25 ottobre.
Lei era una direttrice marketing di 33 anni che viveva nel sud di Londra. Dopo la cena a casa di un’amica vicino al parco di Clapham Common, alle 21.00 iniziò a camminare da sola verso casa. Fece una chiamata al suo compagno, durata 14 minuti, e il suo passaggio venne registrato dalla telecamera di un videocitofono alle 21.28. Poi, il nulla: Sarah non è mai arrivata a casa. Il mattino dopo il suo fidanzato ne denunciò la scomparsa. Scotland Yard setacciò la zona e lanciò appelli agli abitanti anche sui social, per chiedere informazioni e aiuto. Vennero perquisite 750 abitazioni, dragati gli stagni nel circondario, le ricerche si estesero fino alla Contea del Kent, a sud-est. Ma niente, fino a quando venne arrestato un sospettato. Si trattava di Wayne Couzen, un agente di polizia del Comando di protezione parlamentare e diplomatica, l’unità incaricata di proteggere la tenuta parlamentare del Regno Unito e le ambasciate a Londra. Il corpo di Sarah è stato trovato a Hoads Wood, vicino ad Ashford, il 10 marzo. Era stato fatto a pezzi, per questo in un primo momento è stato difficile il riconoscimento, avvenuto in seguito attraverso le impronte dentali. Sarah Everard è morta a causa della compressione del collo, secondo l’autopsia.
La storia del loro incontro e di come si sono svolti i fatti è frutto della mia immaginaizone. Ho scelto di dare a Sarah un carattere molto forte, nonostante non sappia in realtà come fosse, ma così l’ho percepita guardando le sue foto. Ho reso volutamente il racconto crudo, per sottolineare il disgusto che si prova verso la feccia umana e il dispiacere che sorge spontaneo nel vedere la vita di una giovane innocente spezzarsi sotto i colpi della violenza.