Ospite nel nostro istituto, il grande giornalista ha raccontato l’assedio di Sarajevo

di Khadija Charyf e Giacomo D’Agostino

Gigi Riva fu inviato di guerra in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1999 e fu testimone del dramma dell’assedio di Sarajevo, di cui hanno parlato anche le immagini di una mostra fotografica, organizzata in occasione del suo trentennale alla Casa del Mantegna dall’istituto di storia contemporanea.

Il giornalista inizia l’incontro con un quesito fondamentale: cos’era la Jugoslavia? Prima della guerra era un paese unito, una federazione socialista che comprendeva 6 repubbliche (Bosnia ed Erzegovina, Macedonia, Croazia, Slovenia, Montenegro e Serbia, divisa a sua volta in due province autonome, Kosovo e Vojvodina). Le tensioni tra le varie repubbliche, che avevano spinte indipendentiste, sfociarono con l’approvazione del referendum per l’indipendenza della Bosnia dalla Jugoslavia: l’assedio della capitale Sarajevo iniziò nel preciso momento in cui i Serbi che vivevano nella Bosnia ed Erzegovina non accettarono l’idea di una separazione. Fino a quel momento Sarajevo era stata una città cosmopolita, multietnica, multireligiosa e multiculturale, uno dei luoghi al mondo in cui la convivenza tra diversità era ormai antica e consolidata: se il 42% si dichiarava musulmano bosniaco (slavi islamizzati nei precedenti secoli), il 18% croato e il 30% serbo di religione cristiana, molti preferivano definirsi semplicemente jugoslavi.

Tra il 1° marzo e il 5 aprile 1992 le trattative per evitare la guerra non andarono a buon fine: quando il 5 aprile la comunità internazionale riconobbe la Bosnia Erzegovina come stato indipendente, la reazione della Serbia fu immediata. E proprio in quella data, durante una manifestazione pacifista, ci fu la prima vittima dell’assedio: una ragazza che manifestava, uccisa dai colpi dei cecchini che si trovavano nel quartier generale dei serbi, all’Holiday Inn Hotel. Qui, nella stanza 503, alloggiava il capo dei serbi, Radovan Karadžić e, per sfortunate coincidenze, nella 504 si trovava anche Gigi Riva. Molti Serbi iniziarono a lasciare la città, mentre alcuni si schierarono dalla parte dei bosniaci/musulmani, come il colonnello Jovan Divjak, che, pur essendo serbo, difese i cittadini che erano rimasti in città durante l’assedio. Un aiuto consistente fu dato anche dai detenuti, che furono liberati a condizione che si dedicassero alla difesa della città. I caschi blu, invece, le forze armate internazionali delle Nazioni Unite, inviate per cercare di mantenere la pace, non poterono fare molto nemmeno durante le varie stragi del ’94.

Intorno a Sarajevo, tra le colline, furono posizionati dei cannoni che sparavano contro la città tutto il giorno e anche la notte. La città era naturalmente divisa in due dal fiume Miljacka, che permetteva ai cecchini serbi, rimasti in una parte della città, di colpire dall’alto dei monti circostanti i cittadini che si erano rifugiati nella parte opposta alla loro.

Nei primi mesi i serbi fecero il maggior sforzo bellico per cercare di prendere la città in tempi brevi: 1000 bombe furono sganciate sulla città in un tempo brevissimo. Per fortuna ogni edificio aveva un bunker, progettato alla fine della seconda guerra mondiale, che costituì la salvezza per molte persone.

La vita nei bunker era difficile e pericolosa: mancavano elettricità, gas, e acqua, che si doveva andare a recuperare attraverso i pozzi, cercando di non farsi notare dai cecchini serbi. Quando iniziò l’inverno, bisognava tagliare gli alberi per avere un po’ di caldo e il cibo era principalmente donato dalle Nazioni Unite. Gigi Riva entrò nei bunker per documentare la vita delle persone rimaste intrappolate in una città martoriata. Il cibo scarseggiava. Il giornalista ricorda la pasta con le ortiche, che a detta sua era buonissima, ma ammette che in quella situazione qualsiasi cibo vagamente commestibile sarebbe risultato buono al palato. Come in tutte le guerre anche a Sarajevo iniziò il commercio del mercato nero: si potevano trovare cibi più saporiti a prezzi irragionevoli. Finché, un anno dopo, non diventò operativo il Tunnel, ossia un passaggio sotto un aeroporto con lo scopo di collegare la città di Sarajevo, che era stata interamente isolata e circondata dalle forze serbe, ad un’altra, sempre parte del territorio bosniaco, ma non controllata. Persone che cercavano di lasciare la città, cibo acquistabile a prezzi più ragionevoli…il tutto controllato da quella che oggi chiameremmo “pseudo-mafia”, che consentiva cioè l’accesso solo pagando.

In una situazione di isolamento come questa, dove le linee telefoniche erano state tagliate, come facevano i giornalisti a contattare il proprio giornale e a inviare gli articoli?
Bisognava andare all’Holiday Inn, cercando di non farsi uccidere dai cecchini, che si trovavano in quelle zone e poi da lì chiamare il giornale, con l’unico telefono satellitare disponibile, dettando parola per parola. Il costo era di 40 dollari al minuto, un incubo, soprattutto se la persona dall’altra parte della chiamata non capiva un pezzo; considerando che un articolo di 150 righe durava 12 minuti, la spesa complessiva era di 500 euro ogni volta.

A trent’anni dal conflitto, la situazione non è ancora risolta. Soprattutto dopo gli avvenimenti in Ucraina, i serbi bosniaci stanno cercando di imporre con la forza un referendum per separarsi dalla Bosnia e unirsi alla Serbia, sull’esempio di quello che era successo con la Crimea e la Russia. E i Serbi premono per annettere l’intera Bosnia Erzegovina al loro stato. L’amicizia tra Putin e il nuovo presidente della repubblica serba Dodik favorisce ingerenze di questo tipo.

Oggi la situazione non è dunque né stabile politicamente né sufficientemente migliorata economicamente: per questo molti giovani bosniaci sono emigrati per tentar fortuna altrove. Non è nata infatti un’industria bosniaca forte e non si sono create delle istituzioni statali stabili in questo lasso di tempo. Inoltre alcuni principi che scatenarono il conflitto civile sono ancora forti tra certe frange della popolazione, che sostengono l’impossibilità di vivere mescolati o di vivere nella tolleranza e nella convivenza pacifica. A conferma di ciò, è stato presentato al Consiglio d’Europa un nuovo piano per dividere la Bosnia. Si sta ripresentando dunque una situazione che potrebbe alludere a una nuova guerra? Non si può sapere, ma il dubbio è legittimo e angosciante.

Riva sostiene che i principi nati a Sarajevo negli anni ‘90 sono dilagati nel mondo, producendo effetti devastanti. Prima della guerra in Bosnia la parola “secessione” era quasi scomparsa dai vocabolari. Questo concetto è stato anche forse una reazione alla guerra fredda, quando il mondo non contemplava cambiamenti delle frontiere. Con la venerabile caduta del muro di Berlino, i rigurgiti secessionisti e nazionalisti non sono solo dilagati, ma hanno prodotto altre guerre nel mondo e diffuso idee retrograde che hanno trovato terreno fertile anche nel nostro paese. Ad esempio a metà degli anni ‘90 la Lega Nord aveva sposato l’idea di una secessione da Roma delle regioni del Nord d’Italia. Si sono verificati anche altri tentativi secessionisti, ad esempio in Belgio tra Fiamminghi e Valloni o ancora con la Scozia, che vorrebbe tuttora separarsi dal Regno Unito. Quest’idea secessionista ha provocato la guerra tra la Russia e la Georgia nel 2008, la guerra in Crimea nel 2014 e oggi quella in Ucraina.

La guerra in Bosnia ha dunque agevolato la diffusione di questa logica secessionista in tutto il mondo. Parole come “etnia”, “separazione” o “confini”, che prima non erano comunamente utilizzate, ora sono sulla bocca di tutti. Per questo non aver imparato la lezione di Sarajevo ci ha messo oggi davanti ad un’altra guerra che ha dei presupposti simili (ed è ancora più pericolosa in quanto sono coinvolte potenze nucleari). Nella stessa Sarajevo ci sono dei rigurgiti musulmani in reazione all’intolleranza serba: dunque prodotti dalla guerra, non cause della guerra.

Concludendo, Riva invita a leggere in modo cauto e critico i fenomeni sociali riportati dai mass media: quando si parla di etnia bisogna stare molto attenti, rimboccarsi le maniche e studiare la storia, per cercare di capire quando il concetto di etnia viene strumentalizzato, e spesso purtroppo è così.

Seguono le domande dei presenti, altrettanto interessanti, che consentono approfondimento ulteriore sulla realtà balcanica ma anche sul tema scottante della guerra in Ucraina e sul ruolo dei giornalisti nel sensibilizzare la società civile ai problemi del mondo.

Davvero illuminante e pieno di stimoli quest’incontro, condotto da un professionista generoso e straordinariamente umano, che diverse classi dell’istituto “Fermi” hanno avuto l’onore di ascoltare in diretta.

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