In occasione della pubblicazione del libro “Liberi di scegliere” di Monica Zapelli, l’associazione Libera, Mantova ha organizzato un evento dal titolo
“Una battaglia per liberare i ragazzi dalla ‘ndrangheta”.
Di Jacopo Antoniazzi
Monica Zappelli è una sceneggiatrice e scrittrice nata a Pavia, ma scolasticamente cresciuta a Milano. Nella vita è stata anche insegnante di storia e di filosofia e come sceneggiatrice ha vinto due David di Donatello.
Lei ha deciso nella sua vita di fare la sceneggiatrice. Da cosa nasce questa esigenza di raccontare storie di realtà, anche difficili, come quelle mafiose?
Io ho scelto di fare la sceneggiatrice dopo qualche anno che lavoravo, prima ho fatto l’insegnante e ho lavorato nell’editoria; ma il motivo per cui io mi sono occupata di tante storie del Sud (lontane dalle mie dal momento che sono totalmente lombarda) è perché quando io ero ragazza, l’Italia è stata attraversata da una stagione di sangue continua che aveva come epicentro la Sicilia. Qui mi sono resa conto, arrivata l’età adulta, che ho avuto proprio l’esigenza di cercare la verità in cosa era successo anni prima, perché dalla postazione della mia vita milanese mi era come incomprensibile come l’Italia potesse essere stata, contemporaneamente, una democrazia e un paese nel quale non si riusciva a “difendere” chi in un territorio relativamente piccolo, come una regione, difendeva lo stato e lo rappresentava.
Quindi, in sostanza, il mio lavoro è partito da un’istanza egoistica, cioè dal desiderio di capire, e anche dal ricordo, in quel periodo, del senso di vicinanza e di grande unità nazionale di noi studenti lombardi e quelli siciliani.
Si occupa di sceneggiature di film. Secondo lei, alcune serie TV o film, come “ZeroZeroZero”, “Gomorra” o “Suburra”, possono sortire sui giovani un effetto negativo e opposto? Quindi al posto di educarli e allontanarli dal mondo della criminalità è possibile che li avvicinino perché vedono nella “persona con il potere” un simbolo positivo?
Dunque, io ho sempre amato raccontare la criminalità non dal punto di vista dei reati, bensì dal punto di vista di un racconto realistico della quotidianità di chi appartiene al mondo criminale, e quella quotidianità, se noi la andiamo a raccontare esattamente com’è, è una quotidianità squallida e priva di libertà per tutti.
Però, chiaramente esiste un sistema di raccontare storie che è diverso, in cui si calca molto sulla spettacolarizzazione dei reati, perché ad esempio il modo in cui si uccide in Gomorra, è un modo spettacolare ed esagerato rispetto alla realtà della Camorra, la quale non uccide con quel grado, non uccide con quella ricorrenza e soprattutto, dove non vi è quell’assenza di polizia.
Tuttavia, non credo che queste serie siano un “esempio” per i ragazzi perché se andiamo ad analizzare Gomorra, per esempio, ci accorgiamo subito che è un “mondo di zombie”, dove tutti sono perdenti perché alla fine tutti muoiono.
D’altro canto effettivamente mi rendo conto che possa essere un rischio per ragazzi che abitano in certi ambienti e che, difatti, nei quartieri in cui è stata ambientata Gomorra (quindi Secondigliano, Ponticelli e soprattutto Scampia) è scattato una sorta di “motivo di orgoglio” verso chi abitava in quei posti (anche se questo orgoglio era ingiustificato, perché legava l’immagine di quei luoghi alla criminalità organizzata); però credo fortemente che la narrazione non debba subire alcun tipo di censura, perché infine anche quella è un’espressione di cultura proprio come altre.
Tra i suoi film ci sono moltissimi biopic e storie di criminalità. C’è però un cinema che le piace particolarmente o al quale si è comunque ispirata per concepire queste storie? C’è poi un suo genere cinematografico preferito?
In realtà, io come spettatrice amavo storie di altro genere, perché i miei autori preferiti erano Kieslowski e Bergman. Quindi è stata una cosa un po’ scissa, perché io amavo i racconti che indagavano i contrasti legati alla difficoltà dell’uomo in quanto tale nello stare nella vita e nel relazionarsi. Mentre quelle di cui ho scritto sono storie che mi avevano toccata più in fondo, nel caso specifico prima di tutto la famiglia dei Corleonesi, di cui non potevo non occuparmene.
Quale motivo suggerirebbe ai lettori del nostro blog di MyFermi per leggere “Liberi di scegliere” e per andare a vedere “I cento passi” su RaiPlay?
“Liberi di scegliere” è un grande affresco di ciò che significa essere ragazzi e ragazze in alcune zone italiane (in particolare della Calabria), quindi a parer mio è importante leggerlo soprattutto per i ragazzi, in quanto “romanzo di formazione”. Mentre “I cento passi” appartiene ad un passato per tutti noi lontano, però è un buon anticorpo rispetto alle fascinazioni dei racconti del male, perché racconta tante cose però ne racconta soprattutto una, ossia che: nella mafia non si è liberi di amare, e se noi nella vita non siamo liberi di amare non siamo veramente niente.