di Giacomo Terzi

Quando si pensa alla figura dell’infermiere, spesso vengono in mente i turni notturni e le corsie affollate di un ospedale. Molto più raramente ci si sofferma su ciò che questo lavoro comporta dal punto di vista umano: il coinvolgimento emotivo, il confronto quotidiano con la sofferenza e, a volte, con la morte.

Per questo ho deciso di intervistare due infermiere, che hanno scelto di restare anonime, ma non di rimanere in silenzio.


La prima infermiera ha lavorato per molti anni in pronto soccorso e terapia intensiva, reparti in cui una manciata di secondi fa la differenza. Oggi lavora in un poliambulatorio.
La seconda infermiera ha, invece, sempre operato negli ambulatori, dove i ritmi sono diversi, a stretto contatto con le persone in percorsi più “di routine”, ma non per questo meno significativi.

“Cosa vi ha portato a scegliere la professione infermieristica? Come avete capito che sarebbe stato il vostro lavoro?”

La prima infermiera racconta che la sua scelta non è stata programmata:
«È stata una scelta un po’ per gioco. Una mia amica mi aveva detto che in Croce Rossa c’era un bel gruppo di ragazzi e ho iniziato a fare volontariato nel tempo libero. Non avevo familiari in ambito sanitario e non venivo da studi specifici.»

Eppure, qualcosa, fin da subito, l’aveva colpita:
«Aiutare le persone mi dava una soddisfazione enorme. Mi arricchiva. Quando poi ho iniziato il corso e soprattutto il tirocinio nei reparti, ho capito che quella era la mia strada.»

La seconda infermiera racconta un percorso diverso:
«La mia scelta non è stata obbligata, ma sicuramente fortemente sponsorizzata. Mia mamma era infermiera e mio papà lavorava in ospedale. Fin da piccola sentivo parlare di questo lavoro e mi affascinava.»

Ricorda che già da bambina sentiva il desiderio di aiutare:
«Condividevo giochi e materiale scolastico con i bambini meno fortunati. Il desiderio era quello di essere utile, di dare conforto, di migliorare anche solo un po’ la giornata di qualcun altro.»

“Quali sono le sfide e le difficoltà principali nel reparto in cui operi?”

Emerge chiaramente quanto il lavoro infermieristico non sia frutto di solo procedure standard, ma soprattutto di coinvolgimento emotivo.

La prima infermiera racconta l’esperienza nei reparti più vorticosi:
«In questi reparti una tra le sfide principali è il lavoro di équipe. Per salvare una vita servono persone molto affiatate, coordinate, capaci di collaborare.»

Ma la parte più difficile è un’altra:
«In terapia intensiva, ad esempio, segui il paziente dall’inizio alla fine del percorso. Anche se è in coma farmacologico, percepisce gli stimoli. È fondamentale parlargli, chiamarlo per nome, toccarlo con rispetto.»

In rianimazione il tempo non scorre come fuori: si dilata, si comprime, si ferma.

Ogni paziente ha bisogno di un’attenzione completa, totalizzante.

Con il tempo si crea un rapporto anche con la sua famiglia:
«I familiari entrano per pochi minuti al giorno e si affidano completamente a te»

“Che tipo di rapporto si crea con i pazienti in un ambiente meno frenetico rispetto al pronto soccorso?”

Nel poliambulatorio, racconta la seconda infermiera, le difficoltà sono diverse ma ugualmente impegnative:
«Qui il problema principale è il tempo: tutto è ridotto all’essenziale. In dieci minuti dovrebbero essere eseguiti quattro prelievi. Nei pochi istanti in cui si esegue la procedura è necessario percepire le paure del paziente, e di conseguenza rassicurarlo. Le persone raccontano molto di sé, spesso involontariamente. E tu devi esserci, pronta a qualsiasi cosa»

Nei reparti di degenza, spiega, il rapporto cresce nel tempo:
«Le persone ti raccontano la loro storia, la loro vita, le loro paure.»

Negli ambulatori, invece, tutto si concentra in pochi attimi.

“Ricordi la prima volta che sei intervenuta in un caso critico? Cos’hai provato?”

L’ infermiera racconta: «Non ricordo la prima volta, ma indubbiamente quella più significativa»

Un ragazzo di 18 anni, coinvolto in un grave incidente in moto.
«Era un ‘politrauma’: fratture, contusioni agli organi interni, condizioni gravissime. Era addirittura troppo instabile per essere trasportato in ambulanza.»

Era una domenica pomeriggio, e lei era di turno.
«Il paziente arriva cosciente, sentiva, rispondeva. Poi ha iniziato a peggiorare.»

Il ragazzo va in arresto cardiaco una volta.

Due volte.

Tre volte.

Quattro volte.

Ogni volta oltre il limite.


«Per protocollo le manovre rianimatorie durano circa venti, al massimo trenta minuti. Ma noi non ci siamo fermati. Non volevamo lasciarlo andare.»

All’ ultimo arresto, dopo oltre un’ora di massaggio, il cuore riparte.
«Quando ho visto sul monitor il primo battito, ho capito davvero cosa significasse il mio lavoro.»

Quel ragazzo si è salvato. E mesi dopo è tornato in reparto, un’azione particolarmente strana.
«Ci ha raccontato che durante l’arresto ci sentiva, come se fosse sopra di noi. Ricordava le nostre voci, ricordava che dicevo al medico di continuare, che non potevamo perderlo.»

“Si riesce a realizzare di aver salvato una vita?”

Si interrompe un attimo, e poi risponde.
«Sì, ma restano impresse più le vite che perdi. Quelle che non riesci a salvare.»

Non c’è mai leggerezza, ricorda i volti, le età, le storie interrotte troppo presto.

E aggiunge:
«L’unica cosa che ci da serenità è sapere di aver fatto tutto quello che potevamo. Più di così non si può fare.»

«Non siamo insensibili alla morte o alla sofferenza, ma impariamo a farci meno carico del dolore, sarebbe insopportabile. Ma questo non vuol dire che non ce le portiamo a casa, non siamo impassibili, cerchiamo solo di fare del nostro meglio.»

È l’unica consolazione di chi, ogni giorno, lavora al confine tra la vita e la morte.

“Com’è mutata la professione in questi anni?”

Negli ultimi anni, spiegano entrambe, la professione infermieristica è cambiata molto.
È cresciuta in competenze e responsabilità, ma allo stesso tempo ha perso spazio per l’aspetto umano.

«L’ospedale è diventato un’azienda. Si contano i numeri, i tempi, le valutazioni, i budget. La burocrazia toglie tempo al rapporto con il paziente.»

«Non si può standardizzare l’assistenza. Non è una catena di montaggio.

Una volta sedevamo accanto al letto di un paziente che sapeva di stare morendo, oggi invece dobbiamo compilare la cartella digitale.»

“Qualcosa che vorreste cambiare o migliorare del vostro lavoro?”
«Ridare spazio all’assistenza emotiva: una parola, una stretta di mano, un minuto in più possono fare la differenza, sono queste le cose che curano, in fondo…»

Un messaggio da lanciare ai giovani

«Provate il volontariato. Anche una singola esperienza può permettervi di scoprire lati nascosti di voi stessi. Aiutare gli altri arricchisce profondamente.» risponde un’infermiera.

«E ricordate» aggiunge l’altra «è un lavoro che da tantissimo, ma chiede tanto. Non è per tutti. Ma per chi lo sceglie… è un privilegio.»

E poi una frase sospesa.

«Prendersi cura degli altri ti aiuta a comprendere quali sono le cose importanti. E non sono certo le scarpe nuove»

E forse, è proprio questo, in fondo, il significato della domanda iniziale:

salvare una vita è un gesto tecnico, ma soprattutto profondamente umano.

Le loro parole permettono di ricordare una verità che spesso dimentichiamo: dietro ogni camice c’è un essere umano, che mette sé stesso al servizio degli altri.

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