“A chi erano destinati quello spettacolo sublime, quell’abbondanza di poesia profusa dal cielo sulla terra?” – Guy de Maupassant

di Lorenzo Stefanini

Passeggia misurando a passi lenti quel campo deserto. Un vento invernale gli trapassa la pelle, gli sfrega le ossa e blocca ogni suo tentativo di muoversi rapidamente. Il grano non matura con questo clima.

L’uomo è freddo, rigido. Spera di correre via, ma sa di non poter scappare dalla sua immaginazione. Resta immobile, ora, sulla terra secca, ghiacciata, uno strato di brina la nasconde perfino. Lì fuori si gela, non capisce dove si trovi, come vi è arrivato, chissà. Ma è inevitabile proseguire, quindi cammina. Continua, con la dovuta calma, verso un orizzonte sconosciuto.

Qualcosa si accende in quel comune mortale: la paura che tutto voli via troppo in fretta. Vorrebbe poter ricordare ciò che sta vivendo. Se solo potesse controllare la sua memoria, sarebbe capace di accorgersi che ogni momento va vissuto, non trascurato.

In mezzo a quella distesa di nulla, inizia a rendersi conto della semplicità che lo circonda.

La quotidianità, qualcosa di banale, capace di colpire persino il suo animo che si lascia condizionare dalla pioggia: intorno a lui gli alberi spogli si ricoprono di un bianco puro; la brina, nella sua naturalezza, lascia un senso di mistero, su quel terreno invisibile, nascosto sotto il gelo; lì vicino un fosso, nel quale l’acqua non finisce mai sotto lo zero, garantendo la vita; il fango non è più sporco, ma tenero; il calore della Terra ora lo sfiora e gli indica la via.

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