“La signora è una monaca, ma non una monaca come tutte le altre” (cap. IX de “I promessi sposi”)

di S.Z.N.

Secondo me, la Monaca di Monza potrebbe essere paragonata ad un fiore appassito: non lui ha scelto di sfiorire, bensì le condizioni in cui viveva hanno smesso di dargli la libertà di mostrare agli altri il suo splendore.
Così anche la monaca era stata, dalle regole sociali e dal padre, costretta e condannata alla vita di convento: a quel tempo, infatti, solo il primogenito maschio aveva il patrimonio, gli altri fratelli erano destinati a seguire carriere militari o religiose.
Tanto bella quanto cupa e triste, la giovane donna aveva una pelle diafana, in contrasto con il rosato delle sue labbra e il nero infinito delle sue iridi, intrappolate in un perenne ossimoro nel mostrare al contempo odio e una silenziosa richiesta d’affetto, o che almeno un po’ di riguardo fosse a lei degnato.
Era dominata da innocenza e indifferenza, lo si poteva notare anche nel modo in cui vestiva: la sua tunica si stringeva in vita, attillandosi a mostrare le sue forme, e dalla benda le scivolava un ciuffo di capelli, segno inequivocabile del suo disprezzo per le regole del convento.
All’interno di esso veniva però chiamata “Signora”, come se questo nome celasse il suo essere scomposta e “salvatica”, ma metteva anzi in risalto la provenienza e la ricchezza della sua famiglia.

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