Illustrazione di Viola Romanelli

È vero che i ragazzi di oggi faticano a provare emozioni oppure sono semplicemente superficiali in quanto distratti da altri aspetti della vita?

di Janiss Zanoni

Per molti ragazzi vivere all’insegna delle emozioni è un miraggio, per la maggior parte la vita sembra essere piatta, fatta eccezione per i picchi di noia, rabbia, ansia e tristezza. Non siamo capaci di rendere permanenti le emozioni positive, trattenendo le esperienze appaganti e non riusciamo più a godere delle “piccole cose”.

Questo è dovuto a moltissimi fattori. Il primo è sicuramente il pessimismo di fondo che caratterizza la nostra generazione. Siamo angosciati da un futuro incerto che ci piomba addosso, siamo consapevoli del fatto che la situazione del Pianeta è irreversibile e siamo anche preoccupati dal progresso tecnologico che va conquistando sempre più settori e che temiamo finirà per sostituirci nella maggior parte dei settori lavorativi che ci riguardano.

A questo aggiungiamo una fortissima dipendenza dagli smartphone, dalla comunicazione istantanea e dai social, i cui effetti stiamo cominciando a sentire sul nostro umore e non sono positivi. Buttiamo il tempo. Alla fine delle nostre giornate tutto quel navigare non ci ha lasciato nulla.

I social, soprattutto Tik Tok, hanno normalizzato, e talvolta romanticizzato, i sentimenti di sconforto che ci caratterizzano. Cosi siamo più portati a lasciarci risucchiare dal turbine di emozioni negative che ci rendono passivi, inermi. Abbiamo imparato a crogiolarci nello stare male e non abbiamo nessuna motivazione per reagire, per migliorare il nostro stato d’animo.

Se la tristezza è normalizzata, quando si esce di casa bisogna mostrarsi sorridenti: i soggetti malinconici non piacciono alla società. Fingere diventa cosi la soluzione a tutti i problemi. L’obbiettivo è quello di far sembrare agli occhi degli altri che la nostra vita sia colorata, fatta da grandiosi eventi, viaggi o esperienze. Cosi riempiamo i social di foto in cui ci stiamo apparentemente divertendo, siamo felici, siamo animali sociali perfettamente integrati nel tessuto sociale. E invece si tratta solo di un meccanismo di difesa, perché parlare dei propri stati d’animo autentici è un tabù. Il problema non è la paura di essere giudicati per quello che siamo davvero, ma il timore di far crollare l’impianto che abbiamo costruito per fingere di essere felici, a cui noi stessi abbiamo finito per credere. Siamo insomma una generazione di narcisisti che cerca di coprire le proprie insicurezze sfoderando l’immagine di sé che gli altri si aspettano da noi. Una sorta di schiavitù al “Così è se vi pare” di pirandelliana memoria.

Ma quando iniziamo a interrogarci stiamo malissimo, a volte non lo diamo a vedere, altre volte il disagio. è talmente grande che trova sfogo in problemi fisici o in comportamenti devianti.

Alcuni di noi invece scelgono la strada della superficialità: evitiamo di pensare a ciò che viviamo perché non vogliamo analizzare gli effetti che hanno queste esperienze su di noi. Abbiamo paura. La superficialità come difesa però finisce anche per renderci poco empatici. Pensiamo che le vite altrui siano migliori della nostra e che le lamentele altrui siano ingiustificate. Il risultato è una concreta distanza dall’altro.

E continuiamo a chiuderci alle emozioni.

Forse ciò che vorremmo dagli adulti è insegnarci come riconoscerle, affrontarle senza paura e imparare a gestirle. Forse quello di cui abbiamo bisogno è qualcuno che ci spieghi come riconoscere la felicità, come viverla e trattenerla, come fare a uscire dall’apatia distruttiva generata dalla malinconia. Perché da soli noi, generazione Z, non sappiamo farlo.

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