“State attenti, non fatelo cadere”
di Ashveer Kaur
Mi svegliai all’improvviso, a causa di un rumore che irruppe nel mio cervello come un colpo di pistola pronto a porre fine ai miei pensieri dell’inconscio. Mi alzai, cercai con i piedi le pantofole e per poco non andai a sbattere contro il muro: pensavo che lì ci fosse la porta. Oltre al fatto di essere ancora assonnata, anche il continuo cambio di abitazione aveva distorto la mia percezione della realtà.
Varcai la soglia e mi diressi verso la cucina, luogo nel quale probabilmente quel rumore aveva avuto origine. Prima di entrarvi, però, mi munii di una mazza; pensavo di sapere chi vi avrei trovato e non volevo essere impreparata; invece vidi Jean con i cocci del bicchiere sparpagliati sul pavimento e un’aria spaventata e interrogativa riguardo a come avrei reagito. Rilasciai un sospiro di sollievo e abbassai la mazza, che aveva suscitato un po’ di terrore in mio figlio.
Non volevo arrabbiarmi, dato che tutte le mie preoccupazioni si sarebbero riversate su di lui e Jean non ne era assolutamente colpevole; perciò mantenendo la calma, lo presi in braccio e lo appoggiai sulla sedia per evitare che si facesse del male. Ultimamente non dormivo molto bene, la costante ansia non faceva che accumularsi e mi sentivo sempre più debole. Ripulii velocemente il pavimento e gli diedi la colazione: pane con marmellata. Non tutti i giorni si mangiava, ma riuscivamo a cavarcela con lo stretto necessario.
Andai a cambiarmi la vestaglia da notte; optai per un semplice abito bianco, abbastanza voluminoso e stratificato, caratterizzato da maniche lunghe e un corsetto. Era l’ultimo ricordo che possedevo di mia madre: non era morta o almeno l’ultima volta che l’avevo vista era in vita.
Quella notte, durante la mia fuga, era stato proprio quest’abito a proteggermi dal freddo autunnale. Venivo da una famiglia umile e, posando come modella per vari artisti, ero riuscita ad aiutare i miei genitori ad uscire dalla pessima situazione economica nella quale ci eravamo trovati. Mia madre, grazie alla mia bellezza, era riuscita a combinarmi un matrimonio con un rampollo facoltoso; tuttavia quel pomeriggio trascorso nella libreria parigina a Rue Dante aveva cambiato il mio destino. Al primo sguardo ci eravamo innamorati e avevamo iniziato a frequentarci sempre di più. Io posavo solo per le sue opere, ma qualcosa impediva alla nostra storia di continuare: nessuna delle due famiglie ci appoggiava. Scappammo insieme e come una ragazzina testarda, accecata dall’amore, delusi le aspettative di mia madre.
Claude anche questa mattina si era svegliato presto per andare a dipingere l’alba sulla sua barchetta, una sorta di studio galleggiante. Non appoggiavo questa sua decisione: passava sempre più tempo all’aperto e io non sapevo mai dove si trovasse di preciso; non volevo che qualcuno gli facesse del male o che non ritornasse più a casa. Le sue opere provocavano scandalo e insulti e odio, rivolti a lui e ai suoi compagni, aumentavano ogni giorno.
Dopo aver indossato l’abito, raccolsi i capelli in uno chignon e mi guardai nello specchio. Se prima intravedevo una ragazza forte e ambiziosa, ora la luce rifletteva una mamma insicura che non sapeva proteggere la propria famiglia. Del vento entrò dalla finestra aperta e fece sbattere la porta, generando un rimbombo nella stanza.
Sussultai all’udire quel rumore, distaccandomi dai miei pensieri e vidi Claude aprire la porta di scatto; non pensavo che fosse già rincasato. Mi chiese cosa fosse successo, ispezionò la stanza e notando la finestra aperta alle mie spalle, corse a chiuderla.
“Devi smetterla con l’arte” furono le prime parole che pronunciai.
Mi guardò destabilizzato dall’inaspettata richiesta, si avvicinò lentamente e mi chiese: “In che senso?”. Gli dissi tutto ciò che stavo trattenendo: “Non volevo fungere da ostacolo alla tua carriera, volevo appoggiarti in tutto e per tutto dal giorno in cui sono scappata insieme a te. Ma non c’è altro modo per porre fine a questa storia. Non siamo al sicuro qui, ogni giorno vivo nella paura che qualcuno possa ferirti e inoltre da quando è stato ritrovato un artista senza vita, l’idea che ti possa capitare la stessa sorte ha continuato a tormentarmi. Non so più di chi fidarmi, l’uomo è un essere umano incontrollabile e se accecato dall’ira può commettere azioni molto violente. Passi molto tempo fuori e il fatto che possa trattarsi di un addio definitivo continua ad alimentare la mia ansia. Non voglio più continuare a scappare da problemi economici, Jean sta crescendo e voglio garantirgli un futuro migliore e più sicuro. Mi dispiace, non volevo essere un peso, ma non voglio perdere qualcuno in questa famiglia”. Mentre parlavo, le lacrime avevano iniziato a scendere e le labbra tremavano. Claude mi prese il viso tra le mani e con il pollice tagliò la strada alle gocce d’acqua.
“Tesoro, sei stanca, hai bisogno di riposarti e svuotare la mente. Nessun pittore è stato assassinato; lo so, le persone possono essere crudeli a volte, ma non uccideranno mai qualcuno per la sua arte. Io starò bene e impedirò a chiunque di farci del male, darò a te e a Jean il futuro che vi meritate, te lo prometto. Non scapperemo più e vivremo una vita felice, senza avere paura di qualcuno. Solo abbi un po’ di pazienza, sistemerò tutto” mi disse con voce rassicurante. Non ne ero molto convinta, non sapevo se era tutto frutto della mia immaginazione o meno, ma ero troppo esausta per pensare. Volevo credere alle sue parole, perciò annuii, avevo aspettato molto; forse farlo ancora una volta non sarebbe stato difficile. Lo guardai negli occhi e la mia mente volò al ricordo nella libreria, dove tutto era iniziato.
Jean entrò nella stanza e disse di voler andare a fare una passeggiata, pensai che fosse un’ottima idea per cambiare aria e liberare un po’ la mente; perciò lo accontentai. Andò a cambiarsi e io ne approfittai per indossare una veletta e prendere il parasole. Camminammo lungo un sentiero. Ci trovammo su una collina circondati dal verde del prato e dal giallo dei fiori, il sole si trovava poco più in basso dello zenit e regalava tranquillità all’atmosfera. Il tutto era mosso da un venticello che fece svolazzare anche la gonna dell’abito. Ci fermammo ad osservare il panorama e in quell’istante un telo si levò dal nulla, mostrando un rettangolo galleggiante. Rimasi immobile a guardare: sembrava una finestra che si ergeva nel vuoto. Non avevo più una consapevolezza di ciò che stava succedendo, era come se tutta la mia realtà fosse stata distorta, tutto ciò nel quale avevo creduto fosse un grande scherzo. Al di là dell’insolito portale vidi delle persone normali che mi osservavano, indossavano abiti diversi dai miei, ma a parte quello, sembravano delle persone semplici. Era come se si trattasse di un passaggio per comunicare tra due mondi diversi; mi fissavano con un’espressione stupita come se fossi una merce unica. Uno teneva con entrambe le mani un oggetto metallico che emise per un secondo una luce bianca e un altro aprì la bocca per dire:
<<Monet era in grado di giocare con i colori e la luce meglio di chiunque altro. Mi chiedo cosa turbasse Camille in quel momento>>.