Le piazze israeliane contro la riforma di Netanyahu. Quella che il governo israeliano sta portando avanti non è una riforma della giustizia, ma è un colpo di stato antidemocratico.

di Greta Belleli

I colpi di stato non si fanno sempre con i carri armati nelle strade, molti si sono compiuti a porte chiuse con penne e fogli: prima si usa la legge per ottenere il potere, poi si usa il potere per distorcere la legge. Le norme che questo governo sta promuovendo, se approvate, avranno il potere di distruggere le libertà non solo dei Palestinesi ma anche degli Israeliani; i deputati del Knesset (il parlamento) potrebbero approvare leggi razziste, oppressive e antidemocratiche, potrebbero cambiare il sistema elettorale.

La Riforma pretende di “guarire” la democrazia israeliana, restituendo il potere all’organo esecutivo e legislativo. Essa si basa su quattro elementi principali: concedere alla coalizione al governo il controllo totale sulla nomina della magistratura; permettere al parlamento di respingere decisioni della corte; abolire la facoltà dei tribunali di riesaminare le decisioni delle autorità nazionali; permettere ai ministri di ignorare le indicazioni dei consulenti legali.

Perché Netanyahu abbia scelto il suo sesto mandato per far passare tali modifiche è evidente e risiede nei suoi stessi problemi con la giustizia: il presidente è sotto processo con accuse di corruzione, frode e abuso d’ufficio. Anche i partiti ultraortodossi, il movimento dei coloni e i suoi sostenitori politici hanno lunghe storie di ostilità verso la magistratura. Con l’ascesa degli estremisti di destra è diventato evidente che uno degli obiettivi è sbarazzarsi degli ostacoli legali che impediscono la realizzazione di un sistema di apartheid nei confronti dei Palestinesi.

La maggior parte degli Israeliani, però, non ci sta: nelle ultime settimane, centinaia di manifestanti hanno riempito le strade delle principali città del paese. Questa protesta storica sta crescendo in termini di dimensioni e di influenza, considerato che vi hanno aderito vasti settori delle élite ed esponenti all’interno della stessa amministrazione. Numerose aziende dell’alta tecnologia, banche internazionali e agenzie di rating hanno ritirato gli investimenti da Israele.

Mentre la prima manifestazione era caratterizzata da slogan contro l’occupazione e dalla presenza di oratori palestinesi, quelle successive hanno preso una piega molto sionista e tradizionale. Oggi il termine “occupazione” non è mai pronunciato; la parola d’ordine è “democrazia”.

Netanyahu si trova davanti a una scelta difficile: se rinuncia alla riforma il suo governo potrebbe rapidamente disintegrarsi; se va avanti, potrebbe rischiare una crisi senza precedenti.

Quest’ondata di dissenso serve da lezione collettiva sulla democrazia attiva.  Se riuscirà a fermare le iniziative antidemocratiche, potrebbe essere l’inizio di una nuova epoca per Israele, più liberale e meno xenofoba; ma se non ci riuscirà, il governo sarà libero di soffocare gli elementi progressisti e d’imporre misure radicali contro i Palestinesi.

Ma fintantoché ci saranno cittadini che rispondono alla repressione con la lotta alla democrazia e con il supporto ai giudici della corte suprema, la speranza di libertà non morirà.

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